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Helena

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Cara Loretta, tra qui e il West c’è veramente soltanto un sospiro. Eccolo, ce l’ho di fronte come lo avevamo sempre immaginato. Ma prima ecco come sono giunta qui, nel posto da cui ti scrivo: ho trascorso giorni sereni con un gruppo di vecchi hippies che vivono nelle case mobili – ti ricordi quando parlavamo di comprarne una? E di fuggire e fare il giro degli Stati in roulotte? – e mi svegliavo con il calore del mattino sulla testa e l’odore del caffè spinto dal vento attraverso gli oblò fin sulla coperta. Cercavo legna e li aiutavo con le faccende domestiche (fa un po’ strano definire i servizi in una roulotte “domestici”, ti pare?) e mi piaceva stendere lenzuola e coperte al vento che ogni tanto le impazziva sui fili tesi e pareva di stare su un veliero; ho amato aspettare la sera pigra, quando intorno si fa tutto arancio, come mille fari i picchi intorno si accendono di un riverbero dorato e poi rosa e poi turchino finché le luci degli aerei lassù non diventano l’unico puntino in movimento in mezzo ad uno splendore cobalto. E quando il sole sorge ed inizia di nuovo ad arrostire i tetti di alluminio delle roulottes ti devi coprire gli occhi perché il riflesso è così intenso, un lampo ripetuto tante volte quante sono le case, che se lo guardi più di qualche istante rischi la vista. Poi mi hanno parlato di questa città. E’ una città fantasma, nata sullo snodo di una antica ferrovia che fu lentamente dimenticata dai traffici ed il paese con lei, quando pian piano le traversine ed il legno furono smantellati, pezzo dopo pezzo, dalla Compagnia per costruirci nuovi binari altrove, più a nord. Una intera popolazione salì sull’ultimo treno, pagato dal padrone, per trasferirsi anche lei nella nuova città, con pochi oggetti e di fretta che servivano braccia per lavorare. Tutti i felici deportati sapevano di andare a stare in case offerte dal datore di lavoro, sicché lasciarono tutto o quasi qui, nella vecchia casa che abbandonavano. Ed è rimasto tutto come al momento della partenza. Perciò, spinta da curiosità invincibile sono arrivata in questo posto deserto, e me ne sono appropriata. Sulle prime temevo che qualche sbandato vi fosse ancora a soggiornare, perché tracce di visite recenti ve ne sono in giro: carcasse di chevrolet ad arrugginire nei giardini, bottiglie di birra di produzione moderna. Ma dopo poche ore mi sono resa conto che ero completamente sola. Sola. Unica abitante e sindaco e sceriffo di me stessa con una intera città a mia disposizione. Pensaci: sulle prime fa tristezza, è vero, ma poi … poter andare dove vuoi, poter girare per queste vie osservando i resti di una vita congelata all’ultimo momento di una partenza repentina, le caffettiere sui fornelli, i giornali sui tavolini, i letti sfatti riempiti di sabbia dal vento e le finestre aperte. Ho preso possesso di questi miei nuovi quartieri poco a poco. Sono entrata nelle case ed ho provato ogni seggiola come Riccidoro, e quando si faceva notte salivo su per le scale ai secondi piani e mi coricavo nei letti delle camere dei bambini, la carta da parati a fiorami sbiadita, cornici per ritratti sui comò svuotate del volto che racchiudevano, vuote come occhi di ciechi, lampade ad olio impolverate con lo stoppino raggrinzito che pescava tra i moscerini morti, bambole sedute a gambe allargate sui cuscini, con le braccia ancora tese verso l’amore di una padroncina che, chissà perché, non le volle con sé. Ho riempito catini nei pozzi e mi sono fatta il bagno in vasche nelle quali stavi solo seduto, ho apparecchiato tavole deserte per noi due, ed ho preso il fresco del pomeriggio su sedie che non dondolavano più da un secolo. Sai, quando viene la notte è così silenzioso che puoi sentire i serpenti strisciare, a volte non potevo dormire, così mi lanciavo in giri turistici notturni delle case ancora inesplorate per trovare oggetti nuovi, testimoni di gesti trafelati e dimenticanze delle quali ci si sarà ricordati soltanto sul treno, e mi pareva di immaginare quelle persone ammassate nei vagoni economici, quelle madri di famiglia con i bimbi al seno che di botto rammentavano questo o quell’oggetto lasciato qui, ora giunto a me, ora mio. Al sesto giorno ho pensato bene di violare un luogo che da principio avevo tralasciato, poiché ne avevo sottovalutato l’importanza. Il sesto giorno, Loretta, sono entrata nell’Ufficio Postale. Ed ecco. Non capivo, all’inizio. Perché? La posta. Un lampo! Sì. Le lettere, i telegrammi, gli auguri le condoglianze le felicitazioni i conti da pagare degli ultimi mesi di tutti gli abitanti avevano seguitato ad essere recapitati qui, ottusamente, sistematicamente, dalle carrozze del servizio postale che avevano viaggiato per poco tempo in alternativa ai treni soppressi, talché avevo di fronte a me sacchi e sacchi di corrispondenza mai aperta, di buste mai strappate, di pensieri che non avevano mai raggiunto i destinatari. Mi sono seduta. Ho iniziato a leggere quelle grafìe antiquate che dal passato sollecitavano pagamenti, promettevano amori, urlavano odio, rassicuravano su malattie guarite. Persone che non hanno mai saputo cosa stava per accadere e che non hanno mai potuto leggere finalmente che chi amavano le amava, che le avrebbe sposate presto e stai bene, e prega Dio che la ferrovia non venga eliminata, e come sta il nonno, e ti penso sempre. Dopo aver letto tutto quello che mi sentivo di leggere, dopo aver annusato per bene quei telegrammi morti, ho deciso di scriverti, Loretta. Ed ora ti scrivo, anche io, da questo ufficio polveroso invaso dai raggi pomeridiani, perché so che hai paura che non ti pensi ed invece ti ricordo come sei e ti penso più che mai, mia cara, e credo che se queste lettere sono rimaste qui per un secolo ed hanno atteso che arrivassi io a ricongiungerle con dita che dovevano sfiorarle, con labbra che si dovevano schiudere per compitarle ansiose, se loro, loro, hanno aspettato tanto, allora anche io posso scriverti e lasciare le nostre parole qui, ad ingiallire nel sole, perché mi piace l’idea che siano ad un tempo qui e da te che le stai leggendo, perché anche tu allora puoi essere qui con me, ed alza lo sguardo e fissalo sul confine, Loretta, guarda. Il nostro West.

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