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La grandinata
di Helena ultimo aggiornamento
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Helena

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La grandinata

Adesso non piove più. La stanza d’albergo non mi piace ed è surriscaldata dal sistema di riscaldamento centrale che non è possibile spegnere perciò sto facendo una sauna completamente gratis, in attesa che vengano a chiamarci per riunirci. Non posso uscire e non posso comunicare con l’esterno. Niente telefono. Niente bigliettini. Niente ristorante, servizio in camera obbligato. L’acqua minerale è gasata al punto giusto, però. Questa giuria è stata passata al vaglio dalla difesa che l’ha trovata accettabile, a parte la hostess portoricana ed il signore irlandese seduto accanto a me. Non sento la mia ragazza da una settimana e questa reclusione mi sta rendendo idrofobo; sembra che dal momento in cui ci siamo salutati (male) alla stazione, il cielo non abbia voluto saperne di assumere altre espressioni tranne questo cipiglio piovigginoso costante, ossessivo. Siamo spaccati nel nostro verdetto esattamente a metà, eccetto un’unica persona che, lo so, è ideologicamente sfavorevole al tizio dietro la sbarra. Il bagno ha soltanto due asciugamani, uno piccolo per il viso ed uno grande, da doccia, che adesso ho ripiegato sotto il cuscino per potermi appoggiare alla spalliera del letto più comodamente. C’è una giovane donna dall’aria bonaria che nel corso della discussione si è rivelata una forcaiola oltranzista, ribaltando il calcolo dell’avvocato il quale probabilmente l’aveva giudicata una madre di famiglia giovane e progressista dal pantalone a vita bassa e dalle scarpe, errore imperdonabile che posso comprendere per averlo commesso io stesso, con la mia ragazza. Quando ci siamo incontrati la prima volta sembrava una di quelle perle sempre sorridenti con il viso levigato dal vento, una figlia della leggerezza con tante scarpe consumate nel ripiano dell’armadio, quel genere di scarpe tipo desert boot basse, con la suola di caucciù e la tomaia scamosciata tenuta da una sola cucitura di tono più scuro lungo la punta e tutt’intorno al piede, come se camminando dicesse a chi le veniva incontro “ciao sconosciuto che passi, lo vedi, io sorrido sempre!”. Portava questi jeans con la vita bassa come vanno adesso, che le davano un’aria informale e disinvolta come quella di una insegnante delle elementari o cose del genere, pronta a chinarsi per raccogliere una trottola o già seduta in terra all’indiana per esaminare un modellino di aereoplano dall’ala spezzata, tranquilla, luminosa, accondiscendente. Mi sono avvicinato fiducioso e per lunghi mesi la maestra si è seduta ogni sera accanto a me per terra sulla moquette del mio soggiorno, continuando a ripetermi con i suoi pantaloni e con le sue scarpe che era tranquillo, tranquillo. Che non mi avrebbe mai fatto del male. Che avrebbe aggiustato tutti gli aereoplani che avevo avuto la sfortuna di distruggere in questo breve scorcio di esistenza pazientemente, incollando pezzetto a pezzetto, legnetto a legnetto, mandandosi dietro le orecchie i capelli che spiovevano sul viso con quel gesto inconsapevole di quella che vuole proprio restituirti il giocattolo sano. Le sue scarpe continuavano a sorridere. E poi ecco. Mi rimette in mano i frammenti così, senza un motivo apparente, con frasi dure e severe da istitutrice tedesca, e mi domando dove sia finita la creatura fatata, alata, che avevo conosciuto, mi sento preso in giro, vorrei restituirla al negozio di scarpe con un reclamo. Senta, queste scarpe sono diventate durissime. Le avevo scelte perché calzavano come un guanto ma guardi, senta lei stesso: all’improvviso la punta ha iniziato a comprimere dolorosamente i mignoli contro le altre dita con scatti sempre più soffocanti, ed ogni passo una croce, ogni giornata un calvario di pretese come uno stivaletto malese, provi a portarle lei, si faccia un giro, prego. Mi ci potevo sedere sul tappeto senza sentirle, le sue scarpe, come comode ciabatte, ma è bastata una pioggerella per incarognire il camoscio, per sfilacciare le cuciture, che adesso mi strofinano crudelmente la pelle dell’alluce provocando queste due piaghe qui, vede? Mi dia indietro i miei soldi, il mio aereoplano, la mia trottola. Queste calzature sono diventate una condanna ed ogni giorno che mi sveglio accanto a lei mi domando come abbia potuto tramutarsi nell’essere insistente, soffocante che mi trovo vicino nel letto, senza morbidezze, senza cuscinetti che allevino la mia fatica. Mi avete fregato, con questo sorriso invitante di ragazza tenera. Mi dia un paio delle più dure che avete, voglio consumarmele da solo, senza brutte sorprese. La ragazza della giuria si pronuncerà contro l’imputato, lo dicono le sue scarpe. Ed io allora. Aspetterò. Che il giudice emetta la sentenza. Calmo ed impassibile, la seguirò verso casa, suonerò alla sua porta, e lei mi aprirà, sorridente ed un po’ sorpresa, credendo forse ad un tentativo di rimorchio. Ed io entrerò in casa sua, dove mi inviterà probabilmente a sedermi su di un divano coperto da qualche telo etnico degno della finta progressista che vuol far credere di essere, e plausibilmente mi offrirà del tè equo e solidale proveniente da qualche sperduta post colonia mentre io ammirerò il sorriso ipocrita delle sue scarpe da finta ragazza dei fiori che ama le poetesse timide, mentre l’ascolterò vomitare parole di odio sul poveraccio che ha mandato all’ergastolo poche ore prima (ovvero tra circa mezz’ora) annuendo con espressione compunta. Poi mi alzerò e con questi lacci dei miei vecchi anfibi che tanto mi hanno ferito i piedi dai tempi del liceo pronuncerò il mio verdetto, il mio personale, stavolta. Adesso grandina.

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