Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Porcile è un film indigeribile: pesante nella trama atroce, criptico nel linguaggio, ostico nei messaggi politici (e sociali) che sono anarchici, apocalittici e di una radicalismo insopportabile,
La prima visione, mezzo secolo fa, mi aveva disorientato al punto da decidere cancellarne la memoria.
E questo nonostante apprezzassi Pasolini,
Intuivo che il suo era un apologo antiborghese che mirava al cuore del perbenismo e dell’ipocrisia di una società e di un ambiente culturale decadente, affollato, fra l’altro, da uno stuolo di elogiatori del poeta friulano che però lo incensavano, senza stimarlo e capirlo, per quel suo inconsueto essere comunista e omosessuale, provocatore nato e mite affabulatore.
Allora, per le inquietudini che suscitava e le contraddizioni che impersonava, sentivo più consone al mio carattere le fervidw visioni di Fellini (Satyricon) e lperfino le cupe parafrasi mitologiche di Visconti (La caduta degli dei).
Della trama di Porcile è presto detto.
Le storie sono due, apparentemente inconciliabili, diversissime, distanti nello spazio e nel tempo.
La prima si svolge in un castello con tenuta in Germania, e racconta le inquietudini di un venticinquenne post-sessantottino (Julian, interpretato da Jean-Pierre Léaud, l’attore francese onnipresente nei film di Truffaut); nel film appaiono anche Tognazzi, Marco Ferreri, Alberto Lionello e gli amici di Pasolini, Citti e Davoli).
Il giovane borghese è indolente e abulico, sarcastico e provocatorio, cinico, antipatico, egotico, contestatore totale (oltre che ripudiare la famiglia ricca, godendone i privilegi, irride beffardo il ribellismo degli studenti parigini).
Affetto da zooerastia si accoppia coi maiali e da questi, alla fine, viene divorato.
Il secondo film si svolge nel’600, ed è ambientato in una zona arida e deserta (Etna, paesaggio interiore?) e racconta l’infelice vagabondare di un selvatico cannibale, interpretato da Pierre Clémenti (un inquietante attore francese già utilizzato da Visconti e Buñuel).
Un rozzo primitivo impenetrabile che per tutto il film non spiccica verbo, ma prima di essere dato in pasto ai cani randagi, urla ripetutamente, con evidente piacere liberatorio: Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia!
Le due storie - una epica e afasica (solo azioni convulse, urla, lamenti) e l’altra satirica (piena di verbosità funamboliche e chiacchiere insensate, dialoghi caustici e duetti idioti con giochetti scemi in rima) - sembrano non trovare convergenza: ma la distanza fra loro (di contenuti, di epoche e di modelli culturali) sottolinea il fatto che ogni società, sempre, annienta gli atipici, espelle gli eterodossi, massacra i diversi, castiga i disobbedienti.
L’angoscia di Léaud in fin dei conti non appare molto lontana dalla disperazione di Clementi. E la loro fine non è poi così dissimile: col primo divorato dai maiali e il secondo dilaniato dai cani randagi.Così come, parlando di location, il ventoso vulcano è rabbrividente quanto la brumosa villa Pisani a Stra.
Il film resta comunque incomprensibile e disagevole, soprattutto oggi, se non si cercano allacci con la crisi profonda che attraversava l’epoca della contestazione e se non si tengono presenti la personalità contraddittoria di Pasolini, la mitizzazione della sua ambiguità, la tragica sua biografia, il sacrificio rituale della sua fine (che viene in qualche modo prefigurato dai pur diversi destini dei due protagonisti).
L’unica cosa chiara è la sua sostanza disperata, la scorrettezza politica e culturale, la insopprimibile voglia di incoerenza che induce i personaggi (e l’autore) a dire e contraddirsi, affermare e negare, esasperare e irridere, fare capriole di senso, inversioni, fughe nell’illogicità più astrusa o nella ingenuità più disarmante, fra voli onirici e funambolismi incomprensibili.
Davanti a un’opera così, ci si deve rassegnare.
La realtà indecifrabile non può essere raccontata. E nemmeno modificata.
Il vuoto catatonico non può essere compreso o raffigurato. E nemmeno il nulla, la noia esistenziale e l’angoscia; e nemmeno l’indifferenza che annichilisce forse più della disperazione.
L’industriale ex-nazista interpretato da Tognazzi, ai contadini che hanno visto (e che nella loro ingenua semplicità hanno capito tutto) raccomanda il silenzio.
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