Regia di Valerio Zurlini vedi scheda film
Maurice Lalubi (Woody Strode) è il leader di un movimento di liberazione non violento. Viene catturato da un gruppo di mercenari bianchi che chiedono l'abiura delle sue idee. Ma neanche le torture riusciranno a venire a capo della sua volontà di resistere.
"Seduto alla sua destra" è il film più spiccatamente politico di Valerio Zurlini il quale non arretra di un centimetro di fronte alla possibilità di mettere in scena la morte dell'innocenza umana ad opera di animi corrotti dalla sete di potere. Lalubi (un sorprendente Woody Strode) viene presentato come il capo carismatico della rivolta contro il potere costituito (i riferimenti alle vicende congolesi di Patrice Lumumba sono evidenti), mentre Zurlini c'è lo mostra come un uomo dalla grande forza morale capace di insinuare la compassione cristiana in tutti quelli con i quali si confronta. Succede con il comandante della guarnigione (Jean Servais) che lo tiene prigioniero, il quale inizia a nutrire seri bubbi sulla bontà della loro opera "civilizzatrice", ma soprattutto con Oreste (un intenso Franco Citti), suo compagno di cella, un uomo che ha fatto mille mestieri e mille truffe per vivere e che si dona a Lalubi con una devozione davvero commovente. I riferimenti evangelici sono evidenti ma tanto i "Ladroni" compagni di cella del difensore degli oppressi quanto il "Ponzio Pilato" in tuta mimetica costretto all'atto estremo da un "Caifa" africano, vanno visti nella loro dimensione archetipa e quindi non suscettibili di epurare il film da quella componente esclusivamente laica necessaria per dare all'opera di Zurlini la valenza di un attacco contro quei meccanismi del potere politico che producono la ferocia dell'uomo contro un suo simile. La forza morale di Lalubi è di quelle che non fanno indietreggiare l'uomo dal carico di responsabilità che la storia gli ha affidato, di quelle che rappresentano una speranza di riscatto per chi ne segue la scia. É un Cristo laico che accetta il suo calvario con la rassegnazione di chi sa che in ogni tempo e luogo la realizzazione del bene è resa difficile dalla seduzione del male e che se l'amore dato senza condizioni può valere il sacrificio di una vita, la morte di un giusto non deve valere l'oblio per le generazioni future (come sembra suggerirci Zurlini nel bel finale che mostra un bambino in fuga dai colpi di mitra). Si racconta che Zurlini progettò per molto tempo un film di ambientazione africana e che per ragioni di costi dovette accontentarsi di una location romana e di un progetto meno pretenzioso. Tuttavia credo sia riuscito nell'intento di fare un film dalla forte carica umanista che nel ripetersi ciclico, in modi e forme diverse, delle barbarie di cui sanno rendersi capaci gli uomini ha l'elemento capace di attribuirgli quella capacità di durare nel tempo che gran parte della critica specializzata sembra avergli tolto con troppa superficialità.
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