Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Scorsese racconta: “Girai Raging Bull come un kamikaze. Ce l’avevo messa tutta e pensavo che sarebbe stato il mio ultimo film”. Malattia, cocaina, crisi coniugale, insuccesso professionale, nulla mancava.
Raging bull,il Toro scatenato di Scorsese era Jake LaMotta, ilToro del Bronx, 106 combattimenti, 83 vittorie, 19 sconfitte e 4 pareggi.
Poi, a 96 anni, perse ai punti con la morte e fu l’unica volta che andò a terra, sotto terra.
Era il 2017 e chi lo ricordava più? Era grasso e imbolsito, ma nel 1980 De Niro si mise nelle sue mani in quel modo maniacale di cui solo lui era capace e diventò Jake.
Snello, scattante, bello come un Dio dei bassifondi, si allena saltellando sul ring con quell’accappatoio tigrato che era una favola e Scorsese non mette a fuoco l’immagine, è come vederlo in un sogno sfocato mentre va l’Intermezzo della Cavalleria rusticana, la dolcezza che diventa musica e strazia al ricordo di compare Turiddu.
E’ l’incipit, vigoroso e presago, dentro c’è la storia di un mito che sembrava indistruttibile e finì in galera o a far marchette in locali di pessima fama.
L’esodo si consuma in camerino, Jake/De Niro con trenta chili di troppo, irriconoscibile, parla allo specchio prima di andare a divertire il pubblico, ma non è un monologo shakespeariano.
La gelosia per Vicki, seconda delle sei mogli, una bionda atomica che era stata miss America, fu la sua dannazione per l’eternità e innescò una componente paranoidea che già gli apparteneva di suo, non si spiegherebbe altrimenti il suo furore sul ring che faceva chiedere agli avversari, se mai restava loro il tempo per pensare: “che peccati ho fatto per meritare una simile punizione?”.
Paul Schrader e Mardik Martin scrivono, Scorsese dirige quello che era convinto fosse il suo ultimo film, De Niro interpreta il suo personaggio più grande.
Un solo Oscar, a De Niro, ma una gloria eterna a uno dei film più belli della storia del cinema.
Scorsese sceglie di stare sul ring durante i combattimenti, quasi un kammerspiel con la camera inchiodata sul collo dei pugili.
Gli schizzi di sangue arrivano in platea, i combattimenti sono questo, signori, e se ci schifiamo per il sangue che schizza dal groppone del toro infilzato nell’arena perché non farlo se il toro monta sul ring? Non si può stare sempre a tifare fra il pubblico, dar pugni in faccia a un avversario e spostargli il naso non è roba da signorine di buona famiglia.
Dietro Jake, dietro Joy suo fratello, il mitico Joe Pesci, mezza testa più basso del fratello ma un cervello che era il doppio, fuori da quell’appartamentino angusto, camera e cucina con tendine all’unica finestra, dove litigare con la prima moglie era un rito tantrico, fuori c’è il Bronx e lì o ammazzi o sei ammazzato. In alternativa fai il pugile, qualche contratto per incontri truccati lo devi ingoiare e con un po’ di fortuna, se sei bravo, arrivi a combattere per il mondiale.
E Jake quella cintura se l’era guadagnata tutta, ma quello con Sugar Ray Robinson, il giorno di San Valentino del 1951, fu un massacro, Sugar Ray era una belva feroce, "C'è tanta violenza nel mondo, e molta di questa l'ha perpetrata Sugar Ray su di me..." raccontava in vecchiaia LaMotta.
Neanche quella volta però cadde a terra, e fu la sua vittoria.
Infanzia e adolescenza in un posto come il Bronx, emigrante con la famiglia dalla Sicilia dei Vinti di Verga, Jake aveva un solo destino e una lunga vita per raccontarlo.
A chi? Ad un grande regista e ad un manipolo di grandi attori e scrittori, un po’ come quelle storie di guerra che alla distanza diventano leggende.
E raccontarla a noi, ancora oggi intorno al ring di qualcosa che chiamavano sport, ma era un modo per sopravvivere in quell’America che non era certo un sogno, ma piuttosto un incubo senza risveglio.
La durezza del presente è filtrata dal racconto che se ne fa e quel sangue finisce per sembrare versato per una buona causa: il riscatto sociale, la gloria, un po’ di soldi che pure servono in una vita grama.
Ma allora perché quella follia, quel precipitare senza freni proprio quando la gloria ti sta baciando e hai tutto quello che volevi?
Lo spettatore ignaro assiste e s’identifica, la metafora del mondo quale teatro – metafora di lunga persistenza da Platone a Seneca, da Epitteto a Machiavelli – lo impone e noi siamo Jake LaMotta, combattiamo sul ring con lui e finiamo davanti allo specchio come lui.
A quel punto vediamo la nostra faccia e ci fa paura.
La parabola di Jake LaMotta costringe a riflessioni sulle poetiche dell’esistere e dell’arte di vivere, non si può uscirne immuni pensando che tanto quello è cinema.
Jake era uno come tanti in una società che lo bollò diverso fin da bambino.
E lui volle essere veramente diverso, volle scalare il cielo e come i Titani fu rigettato nell’Erebo.
Lungo questa caduta avrà incontrato Dio?
Chissà, diavoli ne ha incontrati parecchi.
''Non puoi essere simpatico sul ring. Io prima di ogni match non facevo sesso per due mesi, potevo diventare un animale pericoloso...''.
Botte sul ring e fuori, sei mogli, un fratello che non lo guardò più, chissà i figli.
Un toro che spezzò le sue catene e finì per morire nell’arena.
Scorsese racconta: “Girai Raging Bull come un kamikaze. Ce l’avevo messa tutta e pensavo che sarebbe stato il mio ultimo film”. Malattia, cocaina, crisi coniugale, insuccesso professionale, nulla mancava.
“Io e De Niro avevamo già girato Taxi Driver e New York, New York. Ero convinto che non avremmo più lavorato insieme, ma lui insisteva perché facessi questo film”
Bob aveva una vera ossessione per Jake LaMotta, e certo non è un caso che tutti e tre avessero le stesse origini. Era un po’ come dirsi:“Dai, adesso gliela raccontiamo tutta al mondo”.
“Non sapevo se saremmo stati in grado di articolare nel modo giusto il personaggio – aggiunge Scorsese - ma avevamo deciso di farlo, di tornare a fare cinema insieme. E posso dire che questo film è la culminazione di tutto ciò per cui ho lavorato da quando ero giovanissimo”.
E la storia continua, per due di loro.
www.paoladigiuseppe.it
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