Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
1. Un uomo solo al comando. Pochi sport, come il pugilato (da qualcuno considerato uno «pseudosport»), lasciano solo il praticante, solo sul ring, solo contro l'avversario, a lottare non soltanto per la vittoria, ma per la propria incolumità fisica, e talvolta, com'è capitato, per la propria vita. Jake La Motta (personaggio) combatte innanzitutto contro sé stesso e in questo senso è ancora più solo. E non si limita a combattere contro sé stesso sul ring, ma anche fuori dal quadrato: riesce a farsi abbandonare dalle persone che gli vogliono più bene, il fratello Joey e la seconda moglie Vickie. Come preannuncio di quanto si vedrà sullo schermo, è già significativa l'immagine iniziale del film, nella quale ci viene mostrato il pugile, incappucciato nell'accappatoio, che saltella da solo sul ring vuoto.
2. Ecce homo. Di La Motta è stato detto che «combatteva come se non meritasse di vivere» e infatti più d'una volta lo vediamo quasi cercare il martirio, come con Dauthuille prima e poi nel match finale contro Sugar Ray Robinson, quando si fa massacrare (ma non mettere al tappeto) con le braccia spalancate, aggrappate alle corde, come crocefisso, schizzando sangue dappertutto, mentre il pugile di colore, inquadrato in soggettiva e in controluce, come un demone nero, continua a colpire senza pietà per finirlo. Perché ritenga di non meritare di vivere non è certo, probabilmente la motivazione è la medesima, autodistruttiva, che lo fa attaccare ciecamente, a testa bassa, come un toro scatenato, chi gli sta d'intorno, tra le quattro corde del ring o tra le mura domestiche. È possibile che La Motta fosse un individualista, che pretendeva di stare al centro dell'attenzione senza l'aiuto di nessuno (come dimostra nella sua carriera, abbastanza squallida, di showman), così come pretendeva di combattere e vincere senza l'aiuto della mafia, che invece lo costringe ad un'assurda sconfitta contro il mediocre pugilatore Billy Fox. E forse è questa la colpa che il La Motta del film imputa al fratello Joey, reo di avere preso gli accordi con il boss Tommy Como.
3. Ecce Martin. A metà degli anni ottanta, Scorsese, che pure aveva realizzato, proprio con Toro scatenato, uno dei primi capolavori del decennio, si trova abbastanza al margine della scena cinematografica. Dopo il film su Jake La Motta, infatti, ha girato un film spiazzante e inquietante, che non è piaciuto molto, soprattutto in America, Re per una notte, con un Robert De Niro ancora una volta mimetico. I film successivi sono un lavoretto indipendente, Fuori orario (che peraltro si rivela un intelligente gioiellino notturno, urbano e kafkiano) e Il colore dei soldi, veicolo verso il premio dell'Academy per un maturo Paul Newman, nel quale è assai difficile scorgere il tocco autoriale del regista italoamericano. Ma già prima che nascesse il progetto di Toro scatenato, Scorsese era caduto in uno stato di profonda depressione, a seguito dell'insuccesso, immeritato, di New York, New York (1977), tanto da finire in ospedale. Fu proprio lì che De Niro, letta la biografia del Toro del Bronx, riuscì a convincerlo a trarne un film. Anche Scorsese era un uomo solo, in quel momento, ma ebbe la fortuna di trovare in De Niro il suo Joey La Motta ed anche la forza di non mandarlo via a pugni come aveva fatto il suo personaggio con il fratello. Nonostante queste traversie, cinematografiche e personali, il regista newyorkese - un po' come il suo personaggio -, dopo l'impresa in bianco e nero (grande il fotografo Michael Chapman, ma anche la montatrice Thelma Schoonmaker, meritatamente premiata con l'Oscar), sente il bisogno di immolarsi nuovamente con un'opera spiazzante come Re per una notte (1983).
4. Ecce criticus. Per quanto mi riguarda, non so come si possa non considerare Toro scatenato un capolavoro. A parer mio rappresenta il culmine della prima fase del cinema di Scorsese ed una sorta di completamento del suo primo film veramente importante, cioè Mean Streets (1973), in cui si condensa tutta l'essenza italianamerican del cinema scorsesiano. Credo che oggi Toro scatenato rientri a pieno titolo nel ristretto novero dei capolavori della settima arte e sicuramente in un'ideale antologia del cinema degli anni ottanta. Eppure, all'inizio, il film non fu accolto bene, soprattutto dai critici, anche dai più avveduti esegeti di casa nostra, e perfino da chi aveva apprezzato le opere precedenti di Scorsese. A titolo di curiosità, riporto per estratti il giudizio negativo, quasi sprezzante, dato da Giovanni Grazzini, sulle pagine del Corriere della sera, il 13 febbraio 1981. «Brodo di dado, ossia la maggiore delusione che ci abbia dato il regista americano Martin Scorsese dopo New York New York: un film di due ore e otto minuti che sembra durare il doppio, una storia stanca e dispersiva, un ritratto di scarsa forza emotiva e di lieve spessore ideologico. [...] nei fatti una descrizione fiacca e letteraria, che non ci dice niente di nuovo, e dal punto di vista sportivo assai poco attendibile, giacché i suoi incontri di boxe sono condensati in scariche di cazzotti e in maschere sanguinanti. [...] Lasciato il ring nel '56, La Motta apre un locale notturno, [...] prima di ritirarsi definitivamente in pensione a Miami, dove tuttora si trova e dove ha scritto un'autobiografia alla quale si sono ispirati gli sceneggiatori del film, Paul Schrader e Mardik Martin. Con frutti, si è detto, modesti. [...] Toro scatenato ha infatti una struttura narrativa e uno stile troppo più vecchi dell'età del regista, è corretto ma convenzionale nella pittura d'ambiente (con una musica di Mascagni poco adatta), e ci offre il ritratto di uno squilibrato che stinge nell'uggioso più che nel lirico malinconico. Non ancora quarantenne, Scorsese sembra aver smesso di crescere come cineasta, contento del grado di buon professionista raggiunto. Le sue idee qui si riducono al ritorno al bianco e nero per ritrovare il colore del tempo, a certi impercettibili rallentamenti che sottolineano l'aura trasognata di alcuni passaggi, alla scelta di interpreti sui quali lo spettatore può fare affidamento.»
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