Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Palma d’oro 1984 a Cannes e tornato in sala dopo il restauro del 2015, avvenuto in occasione dell’Orso d’oro alla carriera a Wim Wenders, mi chiedo oggi, dopo averlo rivisto, se davvero “Paris, Texas” non sia stato un po’ sopravvalutato..
La storia è quella di Travis (Harry Dean Stanton), che, all’inizio del film, sta attraversando a piedi il deserto texano, ripreso dalla nitidissima fotografia di Robby Müller in tutta la sua scabra e fascinosa bellezza. E’ un paesaggio, senza tracce di vita, ed è un luogo dell'anima, corrispettivo metaforico dell’aridità del personaggio, che sembra aver abbandonato, insieme alla tanica dell’acqua, ormai vuota e inservibile, ogni residua volontà di vivere.
Da quattro anni Travis si era separato dal consorzio umano e, lasciando al loro destino la giovane moglie Jane (Nastassja Kinski), e Alex (Hunter Carson), il figlio ancora molto piccolo, aveva fatto perdere ogni traccia di sé.
Si era, probabilmente, messo alla ricerca di Paris,Texas, luogo misterioso e per lui mitico, che porta il nome della capitale francese, ma che essendo nel cuore del deserto texano, è prontamente seguito dalla precisazione geografica. Lì Travis era stato concepito e lì aveva comprato un lotto di terreno, per corrispondenza, investendo i pochi quattrini della famiglia, per costruire una casa a suo figlio: non un grande affare, certamente, e soprattutto poco apprezzato, che aveva contribuito al deteriorarsi dei rapporti fra lui e Jane, la madre molto amata di Alex.
Erano passati quattro anni, dunque, senza che egli fosse riuscito a trovare finalmente quel luogo, il proprio ubi consistam, il se stesso più vero, l’originario Travis nato dall’amore dei suoi genitori. Durante tutto questo tempo, egli aveva disimparato a comunicare con gli altri; il suo sguardo si era fatto sempre più assente; la sua lingua era diventata muta, il suo corpo si era rinsecchito e stava per cedere quando era stato trovato da un sedicente medico, che aveva messo in piedi una clinica nel deserto, riuscendo persino a rintracciare fortunosamente suo fratello Walt (Dean Stockwell), che nel frattempo, con la moglie si era amorevolmente preso cura di Alex.
Il soggiorno nella casa di Walt e il lentissimo ritorno alla parola, nonché il cauto riavvicinamento al piccolo Alex sono le tappe difficili del nuovo percorso di Travis (costellato da altri tentativi di fuga) e costituiscono la parte migliore del film: la sfilata delle scarpe e degli stivali di famiglia, ben lucidati ed esposti al sole; la struggente iniziale ripulsa di Alex che finge di non riconoscerlo all’uscita della scuola e l’ammiccante e scherzoso procedere di entrambi su due marciapiedi paralleli; il riaffiorare di qualche speranza grazie al filmino amatoriale che evoca l’Eden appena conosciuto e subito abbandonato…sono alcune delle scene indimenticabili del film.
Con quel passato Travis avrebbe dovuto fare i conti fino in fondo, riconoscendo i propri colpevoli errori e cercando una riconciliazione con se stesso, prima di tutto, premessa indispensabile per rimettere ordine nella propria esistenza
La fotografia. molto bella, continua ad avere un ruolo importante e metaforicamente malinconico: la luce naturale si confonde spesso con quella artificiale, e spesso, con immediata naturalezza, i lampioni e le luci delle insegne si iinfilano nel crepuscoli dei tramonti ...
Come nella prima parte un’eccezionale colonna sonora (Ry Cooder) sottolinea il percorso del protagonista, non più con gli stridori che accompagnavano l’aridità contraddittoria del suo cuore, ma con le note malinconiche ed elegiache che riflettono il lento maturare della sua consapevolezza, come i numerosi specchi del finale accuratamente preparato e aperto alle nostre interpretazioni:
L'ultima parte del film, mi è sembrata assai poco convincente e vanifica in parte le efficaci suggestioni che avevamo incontrato fin dall’inizio: muta il punto di vista, da Travis ad Alex, ciò che coincide con il prevalere del registro avventuroso e fiabesco e diventa, infine, un po’ banalmente, l’esaltazione dell’esclusività inviolabile del rapporto madre-figlio, con l’inevitabile auto-escludersi del protagonista, che aveva voluto e favorito quel rapporto.
È una contraddizione “ideologica” del film? Temo di sì, ed è anche la contraddizione presente e non sempre risolta in altri film del regista.
Un buon film, certamente, ma non un capolavoro, almeno secondo me.
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