Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Sperduti in un orizzonte illuminato da riverberi di un sole caldo ed avvolgente, ci ritroviamo catapultati in una zona di frontiera esistenziale in cui avviene un salvataggio fraterno. Per una buona mezz’ora, lo dico chiaro, il film non fila. Wenders si compiace della sua lentezza, a tratti lo si potrebbe accusare senza problemi di una pretenziosità intellettuale abbastanza evidente. Poi succede qualcosa. Sarà quel cielo azzurrissimo e cristallino che fa da sfondo al road movie? Sarà quella presenza palese di un’atmosfera coerente con la situazione? Sarà, fatto sta a bordo della macchina presa in affitto i due fratelli mangiano l’asfalto con decisione e si immergono nel cinema di parola e del confronto tra due punti di vista, forse non diversi ma certamente neanche uguali. È la storia del recupero di una serie di rapporti che non straripa mai, in attesa di un qualcosa che stenta ad arrivare. Non tanto per difficoltà di Wenders nel voler far esplodere questa, quanto la creazione di una situazione di sospensione per meglio definire ciò che viene prima e ancora di più spiegare quel che accadrà dopo. E quindi ecco un susseguirsi di duetti che mantengono la costante del protagonista, uomo perso e un po’ scoraggiato, ma determinato a riacquistare quel che ha perduto per incuranza ed incoscienza. Al fratello altruista segue la di lui moglie per poi dare lo spazio giusto al legame ritrovato e sofferto tra padre e figlio – il bambino è stato affidato al fratello del padre – che regala non poche emozioni nella descrizione dell’incontro di due anime che praticamente non si conoscono, ma determinate ed approfondirsi.
E dopo il lungo frammento di dramma privato e famigliare, puntualizzato dagli ambienta della cittadina e della casa del fratello, ritorniamo su un auto, alla ricerca della mamma perduta. Ed, allora, finiamo dritti dritti nel cuore del racconto. Esce di scena il figlio, ma solo fisicamente, perché in fondo è anche lui l’argomento di ciò che avviene nell’ultima parte. Finalmente si incontrano i due amanti, il padre e la madre, la quale è finita a lavorare in un locale dai non meglio precisati connotati. Ed ecco l’immersione nel melodramma, puro e semplice. Il monologo al telefono, la trasfigurazione del volto di lui in quello di lei (è un gioco di vetri), le pulsazioni che si fanno vita, i pianti sommessi, beh, sono decisamente struggenti. Non lo si può negare, così com’era stata struggente la visione del Super8 che rievocava una bella giornata dimenticata (una delle cose più belle del cinema mondiale degli ultimi cinquant'anni). È indubbio che Wenders sappia come usare la mdp finalizzando questa allo scopo di emozionare. Ha un suo modo di guardare l’immagine che lo accomuna a certi poeti che non si limitano alla superficie. Fatto sta che ha i suoi bei difetti (non ultima la lunga durata), e che Wenders non è proprio l’umiltà fatta a persona, però. Però. Il film è bello, non bellissimo, ma certamente ha una sua ragione di esistere ben chiara. Scava nel profondo, all’inseguimento di una psicologia indecifrabile ed oscura, si fa aiutare da una fotografia splendida di Robby Muller che fa brillare gli abitanti della storia con radicale e capziosa bagliore, senza dimenticare il felicissimo apporto della malinconica ed ardente chitarra di Ry Cooder.
È il secondo dei film americani del tedesco Wenders e già si notano certi elementi che ne fanno pensare l’estraneità del suo essere in quella terra dell’abbondanza. Pur amando il Grande Paese, egli ricerca tutto ciò che possa riecheggiare la patria lontana, l’Europa. Qui il simbolo di un Paese che tenta di imitare il modello europeo è rappresentato dalla stessa Paris, Texas, località sperduta in un deserto incontaminato, imitazione bugiarda di una città che non c’azzecca nulla col deserto. E quasi a puntualizzare come non ci sia altra bandiera che tenga, che ormai l’America è l’ombelico del mondo e inghiottisce quel che non è suo, un binocolo indugia sullo sventolare di uno stendardo a stelle e strisce sul fondo di un cielo nitido e sereno. Affascinato ma forse turbato da essa, Wenders l’abbandonerà tre anni più tardi, e quasi seguendo il corso dello stesso cielo si ritroverà sotto la bigia e dispersa volta celeste (anzi, grigia) che avvolge una Berlino spettrale ne Il cielo sopra Berlino.
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