Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Bellissimo! Ad oggi il miglior De Palma. Ho sempre ritenuto ipervalutato questo regista, fin dagli anni 70 quando impropriamente lo si accomunava a giganti come Scorsese, Coppola, Altman. Eppure qui sorpresa… ecco la svolta! Abbandona scimmiottature varie alla Hitchcock, Welles, Ejzenstein (cito fra le tante, la scena della carrozzina ne “Gli Intoccabili”, allucinante ed emblematico esempio del De Palma pre-Carlito’s way) per firmare un capolavoro dolente e malinconico in cui la figura di Carlito assume una valenza nobile e romantica, a volte sognatrice a volte rassegnata, comunque mai patetica o sentimentale. Un Pacino mai così in parte negli ultimi 15 anni, incarna un criminale redento dal carcere, eppure non fino al punto di cambiare se stesso (“ognuno diventa quello che è”). Determinato nell’inseguire una vita onesta e serena che inesorabilmente gli sfugge, è incapace di cogliere quelle occasioni che tramuterebbero realmente il suo destino (negare un folle aiuto all’amico/traditore, accettare la proposta di collaborazione del procuratore, seguire i consigli della sua donna). Un uomo tradito dai propri istinti, dall’onore appreso in strada, dal fatto che in fondo dentro è già morto da tempo, un po’ come lo scrittore di “Viale del tramonto” o il Don Giovanni de “Il cielo può attendere”. Geniale nel rivelare da subito il finale, De Palma ci induce ad osservare il film con gli occhi disincantati e tristi del protagonista, consapevoli insieme a lui della sorte ineluttabile che lo attende (ed i rimandi, questa volta felicemente equilibrati, sono a J.P. Melville, Siegel e Scorsese).
Finalmente il tocco è da grande autore , nel delineare con classe dialoghi e pause, esaltate da una voce fuori campo pregnante, dai tempi di Blade Runner raramente così intensa (ed in Italia la voce di Giannini è un valore aggiunto). Aiutato da un soggetto ed una sceneggiatura di pregio, De Palma imposta il film in maniera insolitamente sommessa e contenuta, a porre un abisso con i passati deliri retorico-kitsch stile Scarface, di cui “Carlito’s way” pare l’equivalente speculare in termini di riuscita. Si registra un unico cedimento nell’inseguimento finale in stazione, dove il cineasta cede alla ricerca della classica scena di pathos, un po’ stucchevole nei risultati, ma comunque superiore a molti suoi precedenti. La pellicola segna un salto di qualità nella sua filmografia, con l'abbandono dell’irrefrenabile tentazione di strafare, imitare ed ammiccare, e mettendo la virtuosistica maestria tecnica e la fluidità di racconto, al servizio di una sensibilità nuova, autentica, finalmente personale e controllata.
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