Regia di Claude Berri vedi scheda film
Maestosa e altamente spettacolare, questa ennesima trasposizione del romanzo di Emile Zola (ben quattro versioni negli anni del cinema muto) si lascia guardare con interesse e partecipazione purché non ci si aspetti di veder restituite fedelmente le circa 600 pagine del libro. Per la sua realizzazzione, Claude Berri, qui regista, produttore e coautore della sceneggiatura, dispone di un budget da sogno e può contare sulla presenza di grandissimi attori. Ne esce fuori un prodotto destinato ad un notevole successo popolare (oltre 6 milioni di spettatori alla sua uscita nelle sale) che puntualmente divide la critica, la parte più intellettuale della quale rimprovera al film di non possedere l’afflato né lo spessore dell’opera alla quale si ispira. Può darsi, ma si tratta di un difetto inevitabile e persino perdonabile. L’intento di Claude Berri non è evidentemente quello di tradurre l’opera letteraria nel linguaggio cinematografico, bensì quello di realizzare una pellicola rigorosa nella ricostruzione ambientale e meticolosa nella cura dei dettagli. Nel 1994, il film si aggiudica due Césars, per la miglior fotografia e i migliori costumi. A mio avviso, avrebbe meritato anche quello per la miglior scenografia. Il realismo con cui sono ricostruiti ascensori, gallerie, carrelli e puntelli nelle viscere della miniera è sconvolgente quanto claustrofobico. Lo stesso può dirsi per lo squallido quartiere nel quale vivono i minatori e le loro famiglie. La miseria in cui versano Maheude (un’intensissima e bravissima Miou Miou), il marito Maheu (un colossale Gérard Depardieu) e i loro sette figli, tre dei quali scendono ogni giorno nell’inferno minerario insieme al padre, si contrappone all’opulenza in cui vivono le famiglie dei padroni. Una visione un po’ manichea, certo, ma anche in questo caso il lusso di ambienti e costumi non può che suscitare ammirazione. D’altronde, stiamo parlando di un film che richiese un anno di preparazione e sei mesi di riprese, di un affresco storico per il quale furono ingaggiate ottomila comparse e realizzati 1.500 costumi. Di fronte a tanto spettacolo, trovo ozioso voler fare le pulci alla fedeltà del film rispetto al romanzo. Come aveva ampiamente dimostrato nel 1986 con “Manon des Sources” e “Jean de Florette”, tratti dai libri eponimi di Marcel Pagnol, a Claude Berri interessa realizzare pellicole popolari ma accurate, attente più alla ricostruzione storica che alle opere letterarie cui si ispira. Non lo considero un difetto, anzi, lo vedo come un atto d’amore per un cinema capace di creare partendo da storie già esistenti sotto un’altra forma.
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