Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Si dice che il gioco debba durare poco per essere bello, eppure la sfolgorante sequenza quale quella all’interno del museo con Angie Dickinson che vaga da una sala all’altra per poco più di dieci minuti fa di Vestito per uccidere un didattico prologo all’immagine cinematografica che potrebbe protrarsi fino alla fine del film senza far scendere la tensione o attenuare la suspense neanche per un attimo. Nel periodo più affine alla lezione di Hitchcock, De Palma omaggia e rielabora i codici della visione spettacolare del suo maestro, li amplifica e li rinnova. In Vestito per uccidere non solo esalta la geometria dello sguardo, componendo dentro la cornice tutto quello che l’immagine può dire, ma mette in moto con la sua tecnica raffinata quella triangolazione comunicativa che unisce spettatore, immagine, macchina da presa, in un processo cognitivo di scambio di ruolo che affascina e irrimediabilmente rapisce. Lo sdoppiamento della personalità, il voyerismo, la tenuta in essere della tensione, lo sguardo e il movimento della mdp scavalcano i personaggi stessi, diventano modi di operare nel tessuto dell’immagine imprimendogli un marchio stilizzato, anche manieristico, ma indubbiamente appropriato e riconoscibile. La scena sopra citata ne è l’emblema, gli spostamenti continui del punto di vista, il dettagliare velocemente azione e incroci di sguardi che impongono variazioni di lettura alla narrazione creano un aurea misteriosa, palpabile e coinvolgente, anticipando di fatto senza troppi espedienti tecnologici ma strumentalizzando creatività e immaginazione, quella stagione che ancora oggi si definisce nel cinema, postmoderna. Kate, una donna matura e insoddisfatta viene uccisa in un ascensore dopo un’avventura extraconiugale. Testimone dell’omicidio è Liz, una giovane prostituta che però viene sospettata d’avere commesso il fatto. Aiutata dal figlio di Kate, indagherà nell’ambito dei pazienti dello psicologo Elliott , dal quale la vittima era in cura. De Palma non si dilunga in particolareggianti meandri psicologici situati fuori dalle immagini. E’ il moltiplicarsi del suo sguardo, l’offrire mutazioni interrogative, l’esercizio speculare del riflesso dei personaggi che impongono attraverso i loro movimenti la riflessione su cosa si poggi il nostro personale punto di vista e su cosa debba prevalere. La presenza della componente erotico-morbosa (che invece con Hitchcock rimaneva visibile nel sottotesto) si coniuga con la dualità sostanziale di tutto il film, i personaggi si vedono diversi da come sono intesi dagli altri, l’ambiguità rappresentativa si scontra con la natura intima che il personaggio vuole fare emergere solo dentro l’immagine, nella pura finzione. Restano impressi questi personaggi seppure nessuno interpreti una parte di rilievo che condizioni la storia, fanno parte della finzione in essere e parte del metacinema che De Palma riproduce, con la sua sintassi dinamica. Con buona pace del tempo che passa, la sceneggiatura non offre tuttavia una storia particolarmente originale ma l’atmosfera è caricata a dovere e si riverbera nelle inquadrature, alcune indimenticabili. Nel finale ultra citazionista De Palma riversa tutto il suo amore per l’oggetto cinematografico, affascinato più dal mezzo che teso a qualsiasi altra finalità comunicativa.
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