Regia di Andrea Barzini vedi scheda film
A metà anni ottanta sulla scia di Tinto Brass esplose il filone dell’erotismo all’italiana. "Una donna allo specchio" e "L'attenzione", entrambi con la musa Stefania Sandrelli lanciata nel genere dall’autore de "La chiave". Una manciata di titoli spesso brutti e trascurabili, Serena Grandi venne beneficiata dal successo di "Miranda" sempre del prode Brass. Nel ’86 l’attrice romagnola fu protagonista di "Desiderando Giulia" di Andrea Barzini, forse il meno peggio della sua carriera e della serie.
Emilio Brentani è uno scrittore in crisi da dieci anni, da quando scrisse un libro apprezzato dalla critica. Ora fa il correttore di bozze “ostaggio della casa editrice”, soffre di indifferenza civile, non ama i salotti e vive con la sorella nubile Amalia in un’antica casa piena di ricordi e solitudine. Il nuovo incarico è affiancare il giovane tuttologo televisivo Stefano Bemberg nella stesura del suo primo romanzo. Questi seduce Amalia e con il mentore alterna contrasti, serate mondane e amicizie come quella con Giulia, una indossatrice e attrice di spot di cui Emilio si invaghisce perdutamente. Lei è una ragazza sentimentalmente libera, fisicamente attraente e disinibita, due mondi opposti che si attraggono e si respingono tra litigi, provocazioni, riappacificazioni e incontri focosi. Amalia lasciata dall’opportunista e vacuo Bemberg riprecipita nella solitudine e nella disperazione. Mentre Emilio si prestava a un gioco erotico con Giulia e un amico mettendo a dura prova i nervi e la gelosia, la sorella sentendosi inutile... Perderà entrambe.
Ciò che ha squalificato "Desiderando Giulia" agli occhi di tutti è la fonte originaria del soggetto, tratta da "Senilità" di Italo Svevo, ispirazione vaga che si riassume nei nomi di tre protagonisti su quattro e in pochi altri tratti delle loro personalità. Un peccato di presunzione tipico degli anni ottanta che qui richiama più Moravia che Svevo. Il ritratto dello scrittore fallito confrontato con quello emergente poteva essere sviluppato meglio, ne affiora solo l’effimero del loro mondo: l’uno borghese e decadente, l’altro dozzinale ed esteriore. Il “maledettismo” di Brentani sta nel frequentare l’equivoca e disinvolta Giulia, specchio di un aspetto del decennio che ha prevalso sull’altro. Amalia che “si portava la morte addosso” (come sentenzia alla fine Stefano) è la vittima di due sistemi, due mondi sfiorati e inconciliabili.
Andrea Barzini gira alla Ferreri gli esterni di un’Ostia fatiscente e squallida fotografata, non a caso, dal ferreriano Mario Vulpiani, i riferimenti al regista milanese si fermano qui, sia chiaro. Moraviano, invece, lo è nei dialoghi e nella restante descrizione degli ambienti. Soft-core spinto nei congressi carnali e nell’esposizione senza sconti delle nudità di Serena Grandi: brava perché recita naturalmente la innata volgarità del (suo) personaggio pubblico e del film; esibisce a scopo commerciale l’ipertrofia mammaria; provoca ed è cagna al contempo. Era film di Brass un corpo e un volto estraneo a Goldoni e all’erotismo sofisticato. Anche Valeria D’Obici, generosa e spesso sottovalutata, nei panni di Amalia si distingue per la disperata e lugubre sensualità: “la sensualità delle vite disperate” cantava Paolo Conte. Fuori parte e inadeguati i ruoli maschili affidati a Johan Leysen (un Cristopher Lambert dei poveri) e Sergio Rubini. Le musiche di Antonio Sechi sono un must (sonoro) degli anni.
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