Regia di Stephen Gyllenhaal vedi scheda film
Avido e violento, il personaggio interpretato con la consueta forza luciferina da Dennis Hopper è una delle tante possibili incarnazioni del male viste al cinema. E, come tale, infonde nello spettatore la speranza che la moglie (Barbara Hershey) riesca a sbarazzarsene il prima possibile e che possa essere condannato in tribunale per il crimine terrificante che ha commesso. Eppure, quel personaggio è talmente malvagio, da far apparire la sua cattiveria quasi disarmante: è convinto di potersela cavare con un'ammenda per l'omicidio di una bambina di colore. Va bene che siamo nel sud degli Stati Uniti (la Georgia di Via col vento) alla fine degli anni Quaranta, ma la pretesa è eccessiva perfino per un tribunale accondiscendente e corruttibile, oltre che composto completamente da una giuria di bianchi. Non so se sia così per tutti, ma a me ha fatto molta più specie il personaggio dell'avvocato (Ed Harris), colto e di buona famiglia, e tuttavia anch'egli imbevuto di pregiudizi razziali ben oltre i propri doveri di difensore in giudizio di un assassino. È pur vero che il legale entra in crisi, cambia fronte e, alla fine, paga con la vita, ma il suo personaggio è perfino più inquietante dello strozzino impersonato da Hopper, perché è il sintomo che in quella parte degli USA la mentalità segregazionista non era appannaggio soltanto di un pugno di malati, simpatizzanti del Ku Klux Klan, ma era patrimonio comune di gran parte della classe borghese. Nonostante una buona mano di regista che l'allora semisconosciuto Gyllenhaal (collaboratore di David Lynch) dimostra, il film non mi convince completamente per qualche passaggio fin troppo brusco nella narrazione e nel mutamento d'idee dei personaggi. Per fare un solo esmpio, l'avvocato finisce a letto con la moglie dello strozzino subito dopo che questa le ha raccontato che il marito l'aveva violentata sessualmente con una bottiglia di vetro.
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