Bernardo Bertolucci, evocando in una lunga intervista il tempo in cui venne girato questo bellissimo film, ricostruisce il clima politico e culturale della fine degli anni ’70, quando, dopo il grande successo internazionale del suo precedente L’ultimo tango a Parigi, gli si aprirono le porte degli Stati Uniti.
Lì, il regista ottenne, infatti, cospicui finanziamenti a scatola chiusa, che gli permisero di creare questa nuova opera nel modo e col tempo che gli parvero necessari, avvalendosi, oltre che di un numero enorme di personaggi popolari, anche di un cast molto prestigioso e blasonato (i nomi più famosi all’epoca erano quelli di Burt Lancaster, Alida Valli, Francesca Bertini, cui si aggiungevano lo straordinario Sterling Hayden, nonché i giovani e bellissimi Gerard Depardieu e Robert De Niro, il quale aveva al suo attivo, comunque, già alcuni film di tutto rispetto - fra i quali la seconda parte del Padrino di Coppola - . Questa illimitata apertura di credito non impedì tuttavia che, all’uscita del film, proprio dal produttore americano arrivassero al regista i primi violenti attacchi: troppo lunga la proiezione di più di cinque ore per il pubblico americano; troppo ideologico l’insieme; troppe bandiere rosse nel film. Eravamo nel 1976, in piena guerra fredda!
In Italia, invece, dove si decise di dividere il film in due parti che furono proiettate separatamente, il film ebbe un sicuro successo di pubblico, ma anche alcuni problemi giudiziari che, dopo le vicissitudini incredibili del film precedente, sembravano essere diventati inseparabili da Bertolucci.
L’assoluzione piena non gli alleviò l’amarezza per la gelida accoglienza da parte della sinistra del tempo, di quel PCI cui il giovane regista avrebbe voluto dedicare quest’ultima sua fatica: erano i tempi del compromesso storico berlingueriano e dei timori che il richiamo identitario al popolo della sinistra avrebbe potuto nuocere a quella strategia. Quasi una ennesima dimostrazione della perenne inattualità degli artisti!
Il film inizia con la rappresentazione della “festa d’aprile” nella campagna emiliana presso Parma (l’ambiente in cui si svolgono le vicende raccontate). E’ il 25 aprile 1945, il giorno della Liberazione dell’Italia dal dominio nazifascita: dalle fattorie e dai poderi accorrono numerosi i contadini, mentre, ancora armati e violenti, gli uomini più compromessi col fascismo di Salò cercano scampo alla loro ira, alcuni ancora sparando e uccidendo. Il festoso e drammatico racconto del ritorno alla vita democratica costituisce la premessa dell’intero film, indispensabile per ricostruire i primi decenni del ‘900, così come erano stati vissuti, in quelle stesse campagne, dai proprietari della famiglia Berlinghieri, il vecchio Alfredo (Burt Lancaster) e suo figlio Giovanni (Romolo Valli), così’ come dai numerosi lavoratori agricoli, che alle loro dipendenze sopportavano condizioni di pesante sfruttamento, sorretti dalla fierezza dell’appartenenza di classe, che condividevano col vecchio Leo Dalcò (Sterling Hayden), patriarca amato e rispettato da tutti
La morte di Verdi, avvenuta nel gennaio del 1901, aveva chiuso definitivamente, in ogni senso, il secolo XIX. La notizia si era sparsa velocemente nelle campagne, urlata dal deforme Rigoletto paesano, ed era stata immediatamente seguita, nella narrazione del film, dagli auspici beneauguranti di due nascite: stavano per vedere la luce, a distanza di poche ore l’uno dall’altro, Olmo (Roberto Maccanti / Gerard Depardieu), l’ultimo nipote di Leo, e Alfredo (Paolo Pavesi / Robert de Niro), l’erede atteso dei Berlinghieri.
Dopo essersi soffermato sulle litigate fra i due bambini, così diversi per collocazione sociale, il regista si appresta a tratteggiare, con grande finezza analitica, il complesso rapporto di amicizia e di ostilità che li connota e che costituisce, forse, il tema centrale di tutto il film, quello attraverso il quale egli filtra gli eventi storici straordinari del primo ventennio del ‘900.
Educato con la severità autoritaria comune alle famiglie patriarcali, vestito sempre come un piccolo lord, col suo collettino inamidato, il piccolo Alfredo prova ammirazione e anche un po’ d’invidia per la libertà anarchica di Olmo, sempre libero di sporcarsi, di non temere i disagi della vita naturale, di agguantare le rane per infilarle crudelmente nel proprio cappellaccio, di entrare vestito nelle acque stagnanti della campagna circostante. Olmo, infatti, era capace di prodezze strabilianti, di atti di straordinario coraggio: sapeva stendersi sui binari al passaggio del treno, uscendone magari molto sporco, ma vivo, senza un graffio.
Una vera delizia, poi, per Alfredo, poter allontanarsi dalle tensioni familiari, dal padre prepotente, dal parentado scroccone, dalla madre lamentosa, dal vecchio e carissimo nonno, in famiglia trattato da demente. La drammatica morte di quest’ultimo, la farsa del testamento dettato al notaio compiacente, le fantasie di evasione nei mondi lontani dello stravagante e diseredato zio Ottavio (Werner Bruhns), la morte di Leo, il treno del Soccorso Rosso a sostegno dello sciopero dei contadini, scandiscono le tappe del tormentato e progressivo staccarsi di Alfredo dalla sua poco amata famiglia, simbolicamente rappresentato dalla coraggiosa decisione di sdraiarsi anche lui, questa volta, sui binari al passaggio del treno pieno di bandiere rosse che sta portando a Genova Olmo insieme agli altri figli dei contadini in sciopero. Ora si dichiarano entrambi “socialisti dalle tasche buche”, ciò che li dovrebbe rendere molto simili, anche se lontani, in tutti i sensi: Alfredo non ha bisogno del Soccorso rosso e perciò non andrà a Genova.
Con un bellissimo passaggio, preceduto da un attimo di buio sullo schermo, ecco un altro treno: una sigaretta che si accende è sufficiente per illuminare le divise dei soldati di ritorno dal fronte della prima guerra mondiale, quelli più giovani, che erano stati arruolati negli ultimi mesi del conflitto. E’ così raccontato il ritorno di Olmo alla proprietà dei Berlinghieri, uno dei momenti emozionanti del film: poche le parole, ma tanta la gioia e la commozione: il lavoro lo aspetta.
Che fine ha fatto Alfredo? Alfredo non è partito neanche questa volta, neppure per la guerra: ha indossato, inutilmente, la divisa da tenente e ha comprato, inutilmente, una lucidissima spada. I soldi del padre gli hanno evitato la partenza; si è allora accontentato di aspettare, in compagnia di Regina (Laura Betti), la cuginetta un tempo presuntuosa e insopportabile che ora egli cerca di allontanare da sé.
La vecchia amicizia con Olmo si rinnova, ma i tempi non sono più quelli. La guerra aveva privato la cascina di molte braccia: Giovanni aveva cercato di rimediarvi acquistando un certo numero di macchine e assumendo un fattore, servile, odioso e ambiziosissimo, Attila (Donald Sutherland), per controllare il raccolto e il lavoro dei contadini. Si diceva, però, che altri proprietari della zona avessero cominciato a sfrattare dalle abitazioni, per lunga tradizione assegnate a loro, le famiglie degli agricoltori “eccedenti”, magari quelli tornati, feriti e invalidi, dal fronte.
Il disagio era profondo e investiva davvero tutti: gli agrari che non intendevano ragione diversa da quella del profitto; i contadini senza colpa che ora si vedevano costretti a lasciare non solo il lavoro, ma le case avite.
Questa volta, però, qualcuno sembrava finalmente in grado di organizzare una vera protesta: la Lega dei braccianti, animata dalla giovane maestra Anita Furlan (Stefania Sandrelli), profuga veronese, accolta dai Dalcò dopo che aveva perso nella guerra casa e parenti. Politicamente molto vicini e reciprocamente attratti, Anita e Olmo si innamorano.
Le ragioni degli sfrattati erano riuscite a fermare l’esercito che i padroni avrebbero voluto si schierasse, come in passato, a difesa delle loro proprietà.
In realtà si stava creando, e Bertolucci lo dice in modo impareggiabile col linguaggio del cinema, l’esplosiva miscela di violenza, odio, frustrazioni, arrivismo e invidia sociale che in breve tempo avrebbe portato all’affermarsi del fascismo.
Una chiesa è lo sfondo del patto scellerato che agrari, preti, aspiranti nuovi padroni e frustrati di ogni specie stringeranno, al fine di organizzare le prime squadre fasciste nelle campagne emiliane: è presente l’ambizioso Attila, è lì anche Regina, frustrata per essere stata estromessa dalle stanze del cugino, che avrebbe voluto sposare; c’è il conte Pioppi (Pietro Longari Ponzoni), il proprietario che aveva dovuto arrendersi davanti ai suoi contadini e c’è anche Giovanni, che lì aveva convocato imperativamente il fratello Ottavio e il figlio Alfredo, prossimo a schierarsi, invece, con le posizioni più estremiste che in un primo momento sembrava aver rifiutato.
I frutti di quella riunione non si sarebbero fatti attendere: la spaventosa violenza delle squadracce infierì con inaudita ferocia: l’incendio della casa del popolo e il rogo in cui morirono bruciati gli anziani che erano di guardia diffuse un tale terrore che i funerali delle vittime si svolsero nell’indifferenza dei più, senza alcuna solidarietà della popolazione, ben barricata in casa, nonostante le invocazioni di Olmo e i pianti di Anita, che ora comprendeva la portata della sconfitta e intuiva la fine prossima di qualsiasi opposizione sociale.
E’ l’autunno triste delle lotte contadine: la piazza vuota, la banda con la solita musica, il corteo con le solite facce; è la fine di un’epoca, la cessazione di ogni forma di mediazione sociale, il trionfo dell’arbitrio e dell’arroganza, come lascia chiaramente presagire la scena agghiacciante e simbolica del massacro del gatto che conclude il primo atto del film.
Ada
La seconda parte del film è preceduta dall’inizio dell’amore tormentato fra la bellissima Ada (Dominique Sanda) e Alfredo, che l’aveva conosciuta a Parma, nella casa dello zio Ottavio, dove lei lo aveva accolto in modo singolare, col volto, celato dalla massa dei capelli bagnati che cercava di asciugare, metaforica allusione di un carattere singolare e sfuggente, che aveva avvertito subito, del resto, lo stesso Alfredo, continuamente spiazzato dal suo comportamento.
Liberando la fronte, la donna aveva scoperto i suoi bellissimi occhi e acceso un sigaro, cosa assai insolita, allora, soprattutto per uno come lui, cresciuto e allevato in campagna. Ada si rivelava, poco dopo, intenditrice d’arte e di cultura, nonché capace di guidare l’auto – altra cosa rara all’epoca – nonché di scrivere poesie secondo la moda futurista.
Affascinante nei modi, elegante, spregiudicata e apparentemente sicura di sé, nutrita di buone letture, Ada lasciava trasparire un’ottima educazione e un’intelligente curiosità per le esperienze più diverse; aborriva la volgarità dei fascisti e la loro violenza che rifiutava di vedere, ragione per la quale talvolta si fingeva cieca.
Alfredo ne era rimasto incantato: lei lo avrebbe riportato a casa sull’auto dello zio, ma lungo il percorso la sua particolare “cecità” aveva messo a rischio la vita di entrambi, durante il sorpasso di un convoglio di squadristi, che non voleva vedere.
Ada era capace di astrarsi dal presente per non vedere gli orrori e le brutture che le stavano intorno, volgendo altrove, più in alto, forse, quei suoi occhi limpidi, che forse cercavano aria pulita, al di sopra delle soffocanti nebbie della “Bassa”.
Nei suoi pensieri inquieti, Ada sognava di spostarsi con Alfredo verso lidi che sperava, invano, finalmente lontani dalle camicie nere: per questo insieme a lui aveva raggiunto Capri, dove zio Ottavio si stava dilettando con la fotografia artistica (ritraendo divinità boscherecce, ovvero ignudi giovanotti in posa sugli alti faraglioni).
Talvolta si assentava dal presente anche attraverso viaggi “altri”, nei paradisi artificiali della cocaina, che lo stesso Ottavio si procurava su quell’isola.
L’Aventino dorato dei due innamorati a Capri, però, non sarebbe durato a lungo: un telegramma aveva avvisato lui della morte improvvisa del padre.
Alla morte di Giovanni, il matrimonio di Ada e Alfredo aveva acceso la speranza che nella proprietà dei Berlinghieri qualcosa sarebbe cambiato nei rapporti con i contadini.
Olmo e anche Ada, a più riprese, avevano inutilmente chiesto ad Alfredo l’allontanamento di Attila, ormai convinto e spietato squadrista, a cui il giovane padrone non aveva voluto togliere la conduzione dei poderi e della casa, neppure quando, in sua presenza, Attila aveva cercato di massacrare di botte Olmo.
Il fatto è che Alfredo, anche se non aveva mai amato i fascisti, aveva bisogno dei loro servigi, come tutti gli altri padroni della zona (e anche come molti industriali del nord): gli mancava la voglia, e la capacità di occuparsi direttamente delle proprietà; era diverso dal nonno che non aveva temuto di condividere con i suoi stallieri e con i contadini “sterco e sudore” e qualche buona bottiglia, talvolta.
Era un “rentier”, che avrebbe preferito occuparsi d’altro, ritenendo che poche e salutari mortificazioni sarebbero state sufficienti a ristabilire le giuste distanze fra lui (era o no il padrone?) e il suo “cane da guardia” – in questo modo Attila si lasciava definire, convinto che le umiliazioni padronali avrebbero trovato prima o poi, la vendetta –.
Presto, invece, si sarebbe sgretolato il suo matrimonio con Ada, nato in fretta e male: i festeggiamenti erano stati turbati da alcuni sinistri presagi.
In primo luogo Alfredo aveva notato con dispiacere l’assenza di Olmo, (Anita era morta da qualche tempo, durante il parto della loro bambina, che si sarebbe chiamata come lei): probabilmente l’amico aveva preferito andarsene per i fatti suoi, piuttosto di accettare l’umiliazione di festeggiare le nozze dell'amico nella stanza dei servi. Non si era visto neppure lo zio Ottavio, che era arrivato in ritardo, ma con un un regalo speciale per la sposa: lo splendido cavallo bianco (dal nome evocativo: Cocaina), che le avrebbe consentito di allontanarsi subito, ancora coll’abito nuziale, pur di non vedere il dilagare sguaiato delle camicie nere nella bella casa, tollerato da tutti gli invitati, mentre in quello stesso giorno Attila e Regina avrebbero orribilmente stuprato e successivamente massacrato un bambino. Il rientro di Olmo e di Ada sul suo bel cavallo e il ritrovamento del corpo straziato del piccino, seguito dal tentativo non riuscito di massacrare il sovversivo Olmo Dalcò, avevano chiuso una giornata da dimenticare.
Ada, però, non dimenticava né l’immobilità del marito di fronte ai soprusi e alle ingiustizie di Attila, né l’ostilità aperta di Regina; aveva cercato di far qualcosa di utile, insegnando alla bambina di Olmo a leggere e a scrivere, ma questo suo impegno non era stato apprezzato né da Olmo, né da Alfredo, che di Olmo stava diventando geloso. Avrebbe allora cominciato un altro viaggio, un doloroso percorso di abbrutimento, attraverso il vino, negato nella sua casa (era Regina a custodire le chiavi della dispensa), ma ottenuto nelle osterie più sordide, dove in una memorabile e nevosa notte di Natale Alfredo era riuscito a scovarla. La scoperta, al loro ritorno, di un nuovo delitto (ancora Attila!) aveva fatto maturare in lei la decisione di troncare ogni rapporto col marito, dapprima rinchiudendosi in camera sua e successivamente abbandonando per sempre la casa e facendo perdere definitivamente le proprie tracce. Si era forse congiunta ai movimenti di resistenza che clandestinamente si stavano organizzando sull’Appennino?
Alla fine del film, cioè nel racconto del 25 aprile che, circolarmente, ci riporta al suo inizio, potrebbero indurci a crederlo alcune affermazioni di Olmo, che a quella lotta clandestina aveva partecipato ed era tornato “bello di fama e di sventura”, come l’Ulisse foscoliano.
E’ certo, però, che ancora una volta la donna aveva spiazzato tutti, confermando la sua sfuggente inafferrabilità, così come la sua limpida e ferma ripulsa di ogni violenza. Torna ancora in mente quel suo sguardo alla ricerca di un mondo pulito, rispecchiandosi nel quale, il regista sembra, in conclusione, esprimere il suo giudizio su tutti i suoi personaggi.
Si è spesso rimproverato al film una sorta di manicheismo: tutti buoni gli antifascisti; tutti cattivi gli antagonisti, emblematicamente rappresentati da Attila, vero genio del male.
Mi pare, invece, che tutte le figure rilevanti di questo film siano emblematiche di un mondo più complesso in cui bene e male sono inestricabili: Olmo, nel suo semplicistico schematismo, è un eroe ingenuo e coraggioso, che può suscitare simpatia, ma col quale è difficile identificarsi; Alfredo è un antifascista più complesso e tormentato, ma non è sufficientemente coraggioso per rompere decisamente con gli altri agrari impegnati a oltranza nella difesa della “roba” e, in ogni caso, è incapace di elaborare una proposta politica in grado di coinvolgere gli altri proprietari in una forma di opposizione liberale. Attila non è il cattivo per antonomasia, né lo è in quanto fascista: è un uomo mediocre, senza qualità, vile e invidioso (se fosse il male incarnato sarebbe un personaggio tragico). Mi pare invece che tipicamentre rappresenti la banalità del male, che ferocemente commette grazie all’assenza dello stato, che rinunciava al compito istituzionale di far rispettare le leggi.
In tutto il film, però, il vero protagonista è il “quarto stato”, esplicitamente evocato nei titoli di testa e di coda, sovrapposti al celebre dipinto di Pelizza da Volpedo e identificato qui con l’intero popolo della Bassa, che, con la sua umanità e anche con la sua memoria fatta di canti, di danze, di espressioni dialettali, ma soprattutto di storie direttamente vissute o sentite raccontare, permette al regista la realizzazione di un grande affresco corale, la ricostruzione di un’epoca fondamentale della nostra storia.
E’ l'invito a ricordare, che si dispiega per tutta la durata della pellicola, l’eredità duratura del film, al di là delle singole scene, più o meno riuscite. Stupefacente è la quantità di emozioni che ancora suscita, attraverso la serie di quadri potentissimi e indimenticabili del nostro passato.
E’ un film di parte, sicuramente. Perché non dovrebbe esserlo? Bertolucci non aveva voluto mettersi al centro di “opposti estremismi”, aveva invece chiarito da quale parte ci si era dovuti schierare per opporsi all’arroganza e all’ingiustizia dei potenti, nelle zone emiliane, come dappertutto!
Lo splendore lirico della prima parte, i cupi drammi della seconda, i personaggi che ancora sentiamo vivere, amare e soffrire, le meravigliose musiche di Ennio Morricone; la splendida fotografia di Vittorio Storaro – restituita dal meticoloso restauro della cineteca di Bologna alla sua originale bellezza – ci permettono di cogliere ancora la grande suggestione di quest’opera–saga, indimenticabile.
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