Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Una grande opera sociologia e visiva, in cui è la storia il vero nemico
Il Titolo è eloquente: il racconto del XX secolo, la summa degli aspetti e delle contraddizioni di un secolo così ricco e discusso. Il regista nostrano Bernardo Bertolucci costruì nel 1976 un lungo film di 5 ore, dimezzato in Italia e ridotto di un’ora negli Usa, ma pur sempre un’esperienza a tutto tondo, un percorso di crescita durante la prima metà del secolo nella terra natale dell’autore, l’Emilia. La potenza insita nello svolgimento della trama risiede nel rapporto tra i due protagonisti: il servo e il padrone, Depardieu e De Niro, il lavoratore e lo scansafatiche, il patriota e il viaggiatore. Amici che devono vedersela con le regole e i cambiamenti della macchina sociale tra le due guerre, cresciuti insieme, l’uno affezionato e arricchito dall’altro, ma ostacolati dai doveri e dalla politica, veri motori dei loro caratteri. Ciò che colpisce è che anche nell’infanzia i due sono consapevoli dei propri ruoli, e pur fregandosene spesso delle regole, le parole vi pongono rimedio e ribadiscono le categorie. Inoltre è importante l’intimità rappresentata tra gli altri con le prime masturbazioni e l’avventura con una prostituta, scene esplicite, ma non gratuite, che aiutano a identificare e a caratterizzare al meglio i due, uniti visivamente dalla scoperta e dalla condivisione della sessualità. La maturità viene concepita come sviluppo, crescita e consapevolezza sia dei personaggi che dello spettatore, che affrontano un percorso pieno di errori, di visioni, e di amori, sempre in contrasto con gli eventi storici generali, garanti della discontinuità vitale e dell’eterna messa in discussione dei propri valori. In complesso è la Storia, l’Epos, il vero nemico, l’antagonista astratto a cui non interessa l’individualità, ma l’aggregazione. Dunque il singolo è sempre depauperato, e qui in particolare viene sporcato, accusato, violentato e ucciso sempre da un gruppo o da una coppia, incuranti di ogni interesse e ogni speranza del diverso. La messa in scena, raramente concentrata sui singoli personaggi, sulla mimica o sulla conformazione fisica, colloca questi ultimi quasi sempre all’interno dell’azienda agricola, luogo ampio, che si divide tra i campi e le stanze, entrambi silenziosi spettatori delle malefatte e in secondo piano degli affetti degli uomini. I totali più incisivi sono le tavole con i familiari a confronto, i contadini a lavoro e le donne intente ad emanciparsi, capeggiate dalla Sandrelli. L’intermezzo della storia è costituito dalla dimostrazione della crudeltà delle camicie nere, il cui massimo rappresentante è lo spietato Attila, un Donald Sutherland indimenticabile, unico personaggio analizzato con la mimica, ma soprattutto con le azioni, di cui una è il motore della seconda parte, nonché la più disturbante e spietata. E’interessante confrontare la fine del primo atto con l’inizio del secondo: sfogo su un povero animale e De Niro che si diverte in piscina: dimostrazione della colpa dei padroni per le loro mancanze, messaggio semplice ma importante reso esplicito dallo splendido primo piano di Depardieu nel finale, rivolto allo spettatore. La fotografia di Storaro ha come colore predominante il giallo, con toni caldi che si avvicinano all’opera di Pellizza da Volpedo “Il quarto stato”, presente nei titoli di testa, conferendo spesso plasticità alle inquadrature. Morricone consolida l’impianto epico generale, vivo più che mai nei lenti carrelli sui campi, capaci di descrivere con le immagini il mondo contadino, sporcandosi le mani sia dialetticamente sia visivamente. Una grande opera, capace di riflettere sul cambiamento che comportano cause di forza maggiore, descrivendo le caratteristiche di un settore e costruendo immagini forti, indelebili, il cui apice è la mega bandiera rossa finale che sovrasta i contadini.
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