Regia di Georges Franju vedi scheda film
Georges Franju abbatte le frontiere tra il presentabile e l’osceno, rifiutandosi di distinguere tra l’ambiente esterno, in cui si tiene lo spettacolo del pubblico decoro, e gli ambienti segreti e nascosti in cui rimangono confinate le realtà disgustose e imbarazzanti. L’esistente è un tutto continuo ed uniforme, che si sottrae ad ogni innaturale suddivisione in dentro e fuori; così le mura dell’ospedale psichiatrico non sono il prodotto di un’effettiva necessità, ma solo il frutto di una crudele convenzione, che pretende di porre degli steccati invalicabili attraverso la complessità della nostra vita, credendo di poter operare una netta separazione tra periodi di normalità e momenti di stranezza, tra fasi di lucidità ed episodi di follia. Eppure non c’è modo di misurare la ragionevolezza delle nostre azioni, la fondatezza dei nostri perché, l’adeguatezza delle nostre risposte; si può, tutt’al più, rapportarle a canoni comportamentali predefiniti, quelli a cui la società abitualmente ricorre per valutare l’accettabilità del nostro modo di essere o di fare. Malato è, di conseguenza, chi non passa il test, chi non rientra nei limiti dei valori di riferimento che determinano la compatibilità con la cosiddetta civile convivenza. Il ricovero in manicomio del giovane François Gérane, rampollo dalla vita ribelle e sregolata, rappresenta la disumana concezione dell’internamento come archiviazione “di comodo” di ciò che ci disturba con la sua diversità, sfidando impudentemente la nostra comprensione. Invece si può essere dannatamente confusi, dannatamente infelici, dannatamente arrabbiati, senza, per questo, meritare l’inferno di una segregazione in cui apparentemente si vive, si lavora, si gioca, ma tutto è per finta, perché avviene senza alcun contatto col resto del mondo, in cui si svolge la vita vera. La tête contre les murs è l’espressione di un’ostinata, quanto vana, lotta contro il pregiudizio, che è la parete, solida ed altissima, oltre la quale troppo spesso amiamo relegare ciò che ci appare difficile e anomalo, e che perciò non abbiamo voglia di considerare, semplicemente, come una delle infinite forme del possibile.
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