Regia di Peter Bogdanovich vedi scheda film
Metacinematografico, profetico, disturbante.
Difficilmente si assiste ad una speculazione metacinematografica condotta con tanta lungimirante maestria. Boris Karloff interpreta esattamente se stesso: un vecchio annoiato e stanco, che non ne può più di vestire i panni di mostri fuori dal tempo, che oramai non fanno più paura a nessuno. Scorrono nelle sequenze iniziali i titoli di coda della sua ultima fatica horror, quasi a evidenziare la fine del genere: l'horror è morto, bisogna inventarsi qualcosa d'altro. Bogdanovich anticipa qui, con visionaria limpidezza, diversi tòpoi dell'horror che verrà: parla di horror senza fare horror. Si svincola dai rapporti di causalità: l'assenza di meccanicismo produce scompiglio, stordimento, confusione. La follia omicida di Bobby non ha motivazioni, è postulata: la sua calma olimpica e la sua metodicità sono raggelanti. L'insensatezza delle sue azioni terrorizza, perché non ne percepiamo il limite, non comprendiamo fin dove si spingerà. La distorsione della routine quotidiana genera una sensazione di prossimità emotiva: è un male che può annidarsi in ciascuno di noi, non è lontano ed immaginario. E' una concezione della paura più adulta, più matura: il gotico ottocentesco e le sue forme mostruose, soprannaturali, spettrali, hanno mostrato la corda, il pubblico ora desidera vedere scorrere il sangue. Nondimeno, il vetusto e obsolescente horror è ancora capace di un sussulto di dignità: Karloff, con portamento severo, guarda in faccia e affronta de visu il nuovo volto che ha assunto la paura e l'ha condannato al pensionamento. Vi vede un miserabile giovincello rannicchiato e tremante: superamento non implica evoluzione, il contegno di Karloff resta inarrivabile ed eterno.
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