Regia di Robert Altman vedi scheda film
Il 12 settembre 1962 John F. Kennedy pronunciò un discorso destinato a rimanere tra i più famosi della sua (breve) presidenza. Presso il Rice Stadium di Houston il neoeletto presidente degli Stati Uniti lanciò il "programma Apollo" chiedendo la benedizione dell’elettorato americano, cominciando da quello accademico. Il programma necessitava di sostegno popolare, spirito di sacrificio e di una cospicua quantità di dollari che il governo avrebbe distolto da altri capitoli di spesa. Il discorso provocò entusiasmo e la fredda indifferenza dei più.
Gli Stati Uniti erano un passo indietro rispetto all’Unione Sovietica in campo aerospaziale. Per superare i russi non potevano rimanere con le mani in mano. Su questo tutti erano d’accordo. Se valesse la pena convogliare ingenti investimenti in un’impresa rischiosa e scarsamente proficua non vi era, a contrario, unanimità di giudizio. I vertici della politica americana promossero studi di fattibilità ed in base a questi presero, infine, la decisione che portò Kennedy sul pulpito.
I sovietici potevano vantare successi di grande impatto emotivo. Erano stati i primi a mettere in orbita un satellite artificiale (Sputnik I-1957), i primi ad inviare un animale nello spazio (Laika-1957) mentre l’astronauta Yuri Gagarin fu il primo uomo ad orbitare intorno al pianeta (1961). Persa la battaglia su questi fronti era necessario sconfiggere il nemico su un diverso terreno di gioco, con un target, per quanto possibile, ancor più ambizioso. Per quanto fosse improbabile da raggiungere nel breve periodo la conquista del suolo lunare venne considerata, dunque, l’obiettivo più idoneo per dare spolvero al paese. In tempi di guerra fredda e di corsa agli armamenti nucleari era di vitale importanza arrivare prima dei sovietici e mostrare la supremazia economica e tecnologica del paese sull’intero pianeta.
L’eccitante clima della corsa allo spazio non lasciò indifferente il mondo della celluloide che già immaginava l’invasione di forze aliene dall’inizio della guerra fredda. Il cinema aveva già conquistato la luna dai tempi di Georges Méliès ma l’obiettivo dichiarato dal presidente di sbarcare su di essa diede alla settima arte l’occasione di realizzare alcune pellicole che avessero una maggior aderenza alla realtà.
Un tentativo fu quello di Robert Altman a cui fu affidata la regia di “Countdown” uscito nelle sale britanniche nell’agosto del 1967 e in quelle americane nel febbraio dell’anno successivo. Il film di Altman fu girato quando mancavano ancora due anni alla passeggiata di Armstrong e Aldrin del luglio ’69. La pellicola ebbe un’accoglienza piuttosto tiepida forse perché gli americani sentivano ancora il peso della supremazia sovietica nel campo della ricerca spaziale. Solo nel tardo ’68 la N.A.S.A. avrebbe operato il sorpasso sui programmi sovietici grazie ai risultati ottenuti dalle missioni Apollo 7 e Apollo 8. Quando, però, il film uscì nelle sale erano più forti gli echi delle agitazioni studentesche, della guerra in Vietnam e del fallimento della missione Apollo 1 che costò la vita a tre astronauti.
Al di là dei penosi risultati al botteghino la pellicola di Altman dimostrò che si poteva realizzare un onesto film sulla conquista della luna apportando alla narrazione gli elementi drammatici della scoperta dell’ignoto e del viaggio senza ritorno uniti ad un resoconto dettagliato delle questioni tecnologiche e scientifiche da affrontare.
La prima parte del film è la più interessante e si sviluppa a terra durante la preparazione dell’equipaggio alla missione. L’introduzione è sia un omaggio agli astronauti deceduti durante l’incidente ad Apollo 1, sia un abile stratagemma dedito ad influenzare la realtà percepita dallo spettatore. Nella seconda parte si entra nel mezzo dell’azione con tutti gli step del caso, dal lancio del razzo all’atterraggio sulla luna.
Da un punto di vista puramente storico il film di Altman ha un valore enorme perché documenta lo stato delle conoscenze del periodo in cui il film fu concepito. La camminata dell’astronauta Lee Stegler (James Caan), per quanto tesa, non sarebbe stata girata allo stesso modo un paio d’anni più tardi, quando i leggeri balzelli di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sarebbero entrati in tutte le case americane. Nel film si fa, inoltre, riferimento ad una base rifugio sul suolo lunare che ancora oggi rappresenta un’utopia. Manca, infine, l’iconica bandiera americana conficcata sul suolo roccioso (benché Stegler ne stenda una nel luogo dell’incidente ai russi). Un particolare a cui il cinema sci-fi non avrebbe più rinunciato negli anni successivi all’allunaggio, sia nel racconto della missione Apollo 11, sia nella rappresentazione di una qualsiasi altra conquista americana.
Dal punto di vista filmico quanto girato da Altman funziona piuttosto bene mentre la “corsa” contro il tempo di Stegler (girata da William Conrad dopo l’allontanamento di Altman n.d.r.) è un buon esempio di tensione emotiva applicata al racconto per immagini. “Countdown” registra la massima tensione durante il pericoloso viaggio spaziale mentre nella prima parte sono le fratture nei rapporti interpersonali a sostenere lo sviluppo drammatico del racconto. Sul suolo lunare, a contrario, sembrano affastellarsi le peggiori ingenuità e le scene più illogiche come la “sepoltura” o l’utilizzo di un portachiave come mezzo di orientamento. I cliché non mancano così come appare evidente la difficoltà ad immaginarsi una scenografia lunare adeguata. Della firma di Altman rimane in questo film, per lui scellerato, la visione pessimistica della politica ed un finale aperto a qualsiasi possibilità. La corsa allo spazio in fondo era appena all’inizio e dietro i proclami trionfalistici la realtà era ben diversa. Non manca, infine, un cenno all’idiozia delle superpotenze, incapaci di collaborare all’ottenimento di un fine comune tanto nello spazio come in terra.
Per il regista, spina nel fianco degli studi televisivi per cui aveva lavorato dieci anni, furono le prove tecniche di una fulgida carriera il cui viaggio sarebbe iniziato, per davvero, con lo sbarco sulla spiaggia di Cannes nel 1969, nel mezzo della pellicola “Quel freddo giorno nel parco” che lo avrebbe indirizzato, balzello dopo balzello, alla Palma d’Oro del 1970 (M*A*S*H). “Countdown” rimase un addestramento utile (?) a conoscere i diktat di produttori e distributori (Warner) con i quali avrebbe dovuto confrontarsi per il resto della sua lunga carriera di cineasta ostico e indipendente.
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