Regia di Lucio Fulci vedi scheda film
Un film matematico, un meccanismo "ad orologeria" perfettamente diretto da un regista particolarmente ispirato. Un giallo che sconfina nella parapsicologia e una protagonista (Jennifer O'Neill) che ci guida, con mano sicura, tra visioni, premonizioni e (sette) note musicali emesse da un carillon di nero accordato...
Virginia (Jennifer O'Neill) è donna dotata di sensibilità extrasensoriale. Da quando era bambina (colpita dalla percezione del suicidio della madre) di tanto in tanto ha visioni -spesso accompagnate dal suono di un carillon- di fatti che avvegono altrove o sono accaduti in passato. Felicemente sposata con Francesco (Gianni Garko) durante il soggiorno in toscana, in un casolare del marito, ha la percezione di un fatto violento avvenuto tra quelle mura: l'omicidio di una donna poi rinchiusa, agonizzante, in una parete. A seguito del rinvenimento di un cadavere femminile tra le mura del fabbricato il marito viene accusato di omicidio e condotto al carcere. Virginia fa di tutto per scagionare Francesco, mentre ulteriori dettagli rivelano incongruenze su quello che la donna ha visto durante le esperienze extrasensoriali e il delitto avvenuto in passato...
Fulci, avvantaggiato dal supporto di una valida sceneggiatura (opera anche di Gianviti e Dardano Sacchetti) realizza una pellicola affascinante, perfetta e decisamente riuscita.
Dopo aver già affrontato con ottimi risultati il giallo (dallo sperimentale Una sull'altra al fondamentale Non si sevizia un paperino, passando per il coinvolgente Una lucertola con la pelle di donna) Fulci qui miscela il thriller con la parapsicologia, probabilmente suggestionato dall'analogo (per contenuto giallo/parapsicologico) film diretto da Argento un paio d'anni prima (Profondo rosso).
Ogni elemento (dalla fotografia alla semplice, ma intensa, soundtrack di Fabio Frizzi basata sull'uso delle "sette note" appunto) contribuisce alla riuscita di un film che rapisce l'attenzione dello spettatore sin dalle prime immagini per poi trattenerla sino alla svolta finale. Svolta inattesa e ottimamente portata sullo schermo grazie alle convincenti interpretazioni degli attori tra i quali risalta, oltre alla O'Neill e Garko, anche Marc Porel in ruolo risolutivo. Un ulteriore valore aggiunto è il drammatico finale, evidentemente ispirato da Edgar Allan Poe e, in particolare, dal racconto Il cuore rivelatore.
In passato ho avuto la fortunata possibilità di uno scambio epistolare con lo sceneggiatore Dardano Sacchetti, persona squisita, di raffinata cultura cinematografica e disponibile al dialogo. Instancabile quando si tratta di parlare attorno al cinema, in merito a Sette note in nero ha rilasciato dichiarazioni che, data la fonte e le interessanti informazioni contenute, più sotto riporto per curiosità destinate a chi, quanto me, ha particolarmente apprezzato il film.
La sceneggiatura di Sette note in nero, a detta di Dardano Sacchetti, fu molto travagliata e si dilungò per lungo periodo tra incontri ripetuti di Fulci e Sacchetti con questo o quel produttore.
Alla base del film stava un romanzo scritto da Vieri Razzini: Terapia mortale.
Stralcio di un'intervista realizzata a Dardano Sacchetti.
Viene spesso trasmesso in tv il giallo di Fulci Sette note in nero (titolo di lavorazione "Terapia mortale"), la sceneggiatura è accreditata a Te, Gianviti e Fulci stesso.
Puoi svelarci alcuni retroscena del regista? Il tuo primo lavoro realizzato con Fulci come lo ricordi? Quali sono gli apporti del regista in fase di sceneggiatura?
Era il 1975.
Avevo scritto Roma a mano armata che ebbe un successo clamoroso ed era veramente ben scritto, tanto che Lenzi, per riconoscermelo, non mise la sua firma come fanno tutti i registi.
Il film fu visto dall'avvocato Todini, che avevo conosciuto quando avevo il contratto con Dino (De Laurentiis, n.d.r.).
Loro stavano cercando di mettere in piedi un giallo con Fulci tratto da un romanzo di Vieri Razzini: "Terapia mortale".
Erano fermi da tre o quattro mesi. Non avevano prodotto neanche una riga scritta. Ogni settimana facevano una riunione e parlavano rassicurando i produttori.
Fui imposto come esperto di "argentismo", ma Fulci mi accolse con molto sospetto, diceva che ero la spia dei produttori, ma soprattutto non mi capiva.
Lui, allora, amava la "vecchia", ovvero Agatha Christie, e insieme a Gianviti si spacciavano per grandi costruttori di trame.
Gianviti, col quale ci fu un’istintiva simpatia, mi consigliò di stare zitto e aspettare che Fulci cavasse le castagne dal fuoco.
Roberto era una persona adorabile ma semplice, aveva scelto per se il ruolo di sceneggiatore gregario, ovvero portatore d'acqua del regista e veniva ricompensato da Fulci con una certa fedeltà perché se lo portava sempre dietro.
Si facevano riunioni tutte le mattine, dalle dieci a mezzogiorno, poi il pomeriggio dalle quattro alle cinque e mezzo.
Durante queste lunghe ore, Fulci fumava la pipa, Gianviti fingeva di prendere appunti io smaniavo.
Il guaio era che il romanzo di Razzini non offriva quelle cose che voleva Fulci e che volevano anche i produttori.
Dopo un paio di mesi, forse anche tre passati a grattarci, quando i produttori stavano per licenziarci, Fulci ebbe la genialata: andò dai produttori e disse loro che il romanzo faceva schifo, ma che lui aveva una idea grandiosa.
Quelli abboccarono.
Gianviti cominciò a snocciolare una serie di film famosi da copiare (sic! si faceva così spesso).
Fulci, che fingeva di essere cinico, ma in realtà era molto sensibile al sovrannaturale, aveva un teorema: che non si può andare contro il destino, che se il destino dice che ti deve accadere una cosa quella cosa accadrà inesorabilmente.
Io, a mò di scommessa, gli dissi che si poteva aggirare il destino.
Lui rispose che era impossibie.
Io mi presi mezza giornata, e il giorno dopo gli raccontai il meccanismo del muro e dell'orologio che suona.
Gli piacque subito, Lucio capiva al volo quando una cosa funzionava.
Scrissi un trattamentino (il "trattamento" è qualcosa che sta a metà fra soggetto e sceneggiatura).
In meno di cinque giorni, avemmo l'approvazione e scrivemmo la sceneggiatura, ma una volta consegnata ai produttori, per motivi che non ho mai capito, dissero di no.
Fulci la prese, la portò altrove e trovò una nuova produzione in meno di un mese.
Se guardate le sceneggiature degli anni 50 vedrete che sono firmate da cinque, sei, sette anche otto persone.
Si chiudevano in un albergo.
Nessuno scriveva perchè non avevano dimistichezza con la penna, ma si facevano grandi racconti.
Si prendevano appunti e le scenaggiature erano (a volte anche adesso) più che altro degli appunti con una lista dialoghi.
(Dardano Sacchetti)
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