Regia di Francesco Rosi vedi scheda film
In una grande città del Sud Italia, un imprenditore edile anche assessore comunale, sfrutta il suo potere politico per accumulare appalti su appalti. Non appena ci scappa il morto i comunisti indagano e quelli di destra provano ad infangare il tutto. Le coscienze si smuovono, ma trovandosi sotto le elezioni si ricorre alle false promesse e ai favoritismi verso gli elettori per cercare di accaparrare voti e gettare tutto nel dimenticatoio. Non è l’Italia berlusconiana descritta da un filmaker di sinistra, ma quella del 1963 e a raccontarla è il maestro Francesco Rosi. “La mani sulla città” è probabilmente il capolavoro del regista napoletano, in cui si concentra la summa del suo cinema (impegnato socialmente, essenziale nella forma, schivo e diretto) in una pellicola che ha fatto scuola (ancora oggi il film è uno dei riferimenti più citati in assoluto quando si parla di corruzione politica in Italia). Straordinario contributo di Piero Piccioni alla colonna sonora. Rosi rimane equidistante da destra e sinistra, facendone un calderone unico che tuttavia non puzza di qualunquismo; questo perché il suo modo di trattare il sistema politico coevo è inflessibile e coraggioso. E l’epitaffio sulla politica italiana che campeggia poco prima della parola “fine”, che parla di personaggi immaginari, ma di realtà sociale autentica, unitamente al fatto che la pellicola si chiuda con una scena quasi identica a quella di apertura, la dice lunga sul pessimismo che riecheggia dal duro e inflessibile giudizio morale dell’autore.
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