Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Se ne potrebbe parlare per ore. Ma d’altronde è un film di cui si sa praticamente tutto. In principio avrebbe voluto realizzarlo Ettore Giannini, l’autore del più importante musical del cinema italiano, Carosello napoletano. Poi il povero Giannini dovette soccombere. E così nella mente di Goffredo Lombardo Il Gattopardo nasce con l’intento di essere il nostro Via col vento, perché, come il romanzone di Margareth Mitchell (sogno represso di Sergio Leone, che non amava l’adattamento cinematografico), il malinconico principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa era riuscito a creare il romanzo di una nazione in cui tutti, dall’umile contadino al nobile decaduto potevano identificarsi o trovare qualcosa del proprio vissuto umano, politico e sociale, e anche i cattivi (gli usurpatori, i traditori e via dicendo) hanno il proprio ruolo, sullo sfondo di un mondo in divenire che cambia i propri connotati per rimanere sempre uguale.
Insomma, il Gattopardo, più che un romanzo (peraltro poco letto ma vitatissimo a sproposito, così come tanti altri libri nostrani), è patrimonio nazionale, racconto sì storico ma anche inequivocabilmente romanzesco. Lento, a volte lentissimo, ma proprio per questo ancora più potente perché in antitesi con tutto ciò che di avventuroso, rivoluzionario e furioso avviene fuori dal palazzo del principe, è il nostro kolossal per eccellenza (al di là del peplum Ulisse e degli ultimi film di Tornatore, che sono altre cose) perché ha il tono del kolossal, magniloquente e dominante nell’affermare i propri tempi e le proprie regole. Luchino Visconti, tra i tanti pregi che lo caratterizzavano, aveva la capacità di girare ogni film con una cura particolare (si sa che pretendeva che nei cassetti chiusi ci fossero oggetti d’epoca), tant’è che per qualunque altro regista Il Gattopardo sarebbe stato il film della vita.
Invece, nel suo essere ovviamente un capolavoro, è solo un tassello del suo ampio, complesso e lungo discorso sulla decadenza e sulla scomparsa di un mondo contraddittorio e sfumato, violento ma anche straziato: Fabrizio cammina a braccetto con le future creature del cinema viscontiano, dalla terribile famiglia Bruckmann de La caduta degli dei al Gustav di Morte a Venezia fino al professore di Gruppo di famiglia. Quella che è probabilmente la sequenza più famosa del cinema italiano (assieme ad Anita Ekberg che si fa il bagno in Fontana di Trevi ed Anna Magnani che corre dietro la camionetta), ossia l’eterno ballo a palazzo, è la metafora del crepuscolo di un mondo (la nobiltà siciliana) e della nascita di un altro mondo (la borghesia con gli stessi difetti di forma della nobiltà di stampo feudale), ma anche su questo si è detto molto.
Alla fine della fiera il film fu un mezzo flop perché coprì i costi di produzione, ma in America (nonostante Burt Lancaster, che due anni prima aveva vinto l’Oscar) non ebbe successo anche a causa di un montaggio diverso. Resta un capolavoro capace di suscitare sempre riflessioni mai scontate e sconcertatamente attuali, impreziosito da un apparato tecnico mostruoso: sceneggiatura stratificata di Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa e Visconti; stupenda fotografia che (si) esalta (con) le luci natural di Giuseppe Rotunno; ricercate scene di Mario Garbuglia; filologici costumi di Piero Tosi; eterogenee musiche di Nino Rota con un valzer riesumato di Verdi; e un cast da urlo (Romolo Valli, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Serge Reggiani, Ivo Garrani, Tina Lattanzi…) in cui i due giovani e bellissimi (nonché bravissimi) Claudia Cardinale ed Alain Delon reggono lo strascico alla mastodontica prova di Burt Lancaster (doppiato da Corrado Gaipa).
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