Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Recentemente ho letto "Il gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e sono rimasto davvero colpito da quanto il film di Luchino Visconti sia fedele al capolavoro letterario, sia nell'impianto della trama che nella resa spesso letterale di molti dialoghi e di alcuni esempi di monologo interiore, sia nella fedeltà allo spirito dell'opera del principe siciliano, aiutata senz'altro dell'appartenenza dello stesso Visconti alla classe nobiliare. In questo modo sono riuscito a rivalutare anche alcuni aspetti che alle prime visioni mi erano apparsi non del tutto risolti o come lungaggini del racconto. Faccio qualche esempio: alcune scene soprattutto dialogiche possono apparire dilatate o perfino interminabili, oppure si può avere l'impressione che rallentino un po' troppo il ritmo del racconto; il primo esempio che viene in mente è il dialogo fra il principe Salina e il piemontese Chevalley in cui il principe rifiuta la collaborazione come senatore, che dura quasi un quarto d'ora e può apparire prolisso, ma dopo la lettura del romanzo ho avuto la netta impressione che non ci fosse una parola fuori posto e che Visconti abbia fatto bene a conservare tutto quello che poteva essere conservato, per non impoverire la visione storica e politica del Risorgimento e il fatalismo che Lampedusa mette in bocca a don Fabrizio, e che probabilmente apparteneva allo scrittore stesso. Coadiuvato dai suoi abituali sceneggiatori come Suso Cecchi D'Amico e Pasquale Festa Campanile, Visconti ha tagliato gli ultimi capitoli dove si narrava la morte del Principe Salina e la decadenza del Casato cinquant'anni dopo, con le figlie del principe ormai rimaste zitelle, che in effetti sarebbero stati molto difficili da rendere in maniera adeguata sullo schermo, ma per il resto ha saputo aderire con grande intelligenza alla materia narrativa, con invenzioni registiche che si pongono sempre al servizio dell'opera letteraria, senza entrare in contrasto o distorcerne il senso. Anche la dilatazione estrema della scena del ballo, che nel libro occupa una ventina di pagine mentre nel film arriva a ben 45 minuti di durata, gioca a favore dell'efficacia complessiva del risultato, perché permette di inglobare il senso di morte imminente che pervade il principe e il senso di decadenza irreversibile di una classe nobiliare tagliata fuori dalla storia che il libro disperde sugli ultimi capitoli, giudicati infilmabili dagli sceneggiatori. La malinconia e il pessimismo che pervade le pagine scritte ci sono tutti, e il rilievo dei singoli personaggi ne esce ancor più rafforzato. Perfino alcune descrizioni che nel libro sono affidate al narratore onnisciente, come la descrizione degli affreschi mitologici di Villa Salina, nel film vengono recuperati in momenti diversi, senza perderne il senso e la funzionalità narrativa. Viene tagliata anche la parte in cui padre Pirrone si reca nel paesino di San Cono a trovare i suoi familiari e deve rimediare con un matrimonio riparatore ad una triste lite e disputa che avrebbe potuto sfociare nel sangue, che sullo schermo avrebbe aggiunto ben poco rispetto alle tante notazioni strazianti e rivelatrici di miserie umane della scena del Ballo.
Ma direi che le scelte di casting sono un altro degli elementi che rafforzano l'intensità dell'opera e conferiscono colore e smalto ai personaggi già finemente delineati nel libro. Burt Lancaster nel ruolo del principe si è rivelato al di là di ogni elogio, fisicamente imponente, dallo sguardo spesso altero o corrucciato, cattura perfettamente la dignità nobiliare e la sua rassegnazione di fronte all'avanzare di nuove forze sociali. L'unico rimpianto nella versione italiana è quello di non ascoltarlo con la sua voce, ma il doppiaggio di Corrado Gaipa è assolutamente all'altezza della performance dell'attore americano. Fra i protagonisti, solo Alain Delon sembra essere leggermente al di sotto delle attese, poiché resta un po' in superficie nel tratteggio della figura di Tancredi e non riesce a renderne appieno il magnetismo e l'insolenza che tanto affascinano chiunque gli capiti sotto tiro; Claudia Cardinale è invece un'Angelica giustamente bellissima e avida al punto giusto, dal contegno zingaresco e dalle risate volgari che squarciano l'apparente serenità dei pranzi nobiliari. Ottima la recitazione di Paolo Stoppa, Rina Morelli, Romolo Valli e Serge Reggiani in ruoli di supporto che conservano quei tratti fortemente connotati anche nei personaggi minori della scrittura di Lampedusa (e certe battute come "Angelica, sei molto cambiata in questi anni. E non in peggio" mantengono un'insperata carica ironica che poteva facilmente scadere nella caricatura).
Inutile sottolineare il rigore visivo e il fasto dei costumi e del production design che i detrattori del Maestro apparentano in maniera semplicistica all'estetismo o alla cartolina illustrata, ma il film vive di momenti indimenticabili in cui le luci di Giuseppe Rotunno e le musiche adeguatamente melodrammatiche di Nino Rota contribuiscono a quell'aura da opera lirica che anticipa le saghe coppoliane del Padrino e superano una volta per tutte il Neorealismo che si respirava ancora in qualche scena di "Rocco e i suoi fratelli". Grande spettacolo visivo, accorata riflessione sul tramonto di un mondo che già porta i germi di quella Recherche proustiana che Visconti sognerà inutilmente di adattare, esempio ammirevole di film che dialoga col testo letterario e tesse una fitta rete di rimandi intertestuali. Il Gattopardo è tutto questo è molto altro ancora.
Voto 10/10
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