Regia di Giuseppe Ferrara vedi scheda film
Girato a meno di un anno dalla strage di Capaci, è uno dei pochi istant movie degli anni novanta: è una buona azione, ma non si può onestamente considerare un buon film. Ma nonostante la sua rozza efficacia e la messinscena retorica è probabilmente uno dei film meno brutti di Giuseppe Ferrara, uno di quelli nei quali alle altissime ambizioni rispondono risultati non proprio indecenti. Trascinato da un sentimento popolare che in quel momento divampava nel cuore e nella mente degli italiani, Ferrara scrive, con la fida Armenia Balducci, e dirige con staticità la cronaca di più di dieci anni di lotta alla mafia, incentrando il film sulla figura del giudice Falcone, analizzando molto il pubblico e poco il privato.
Ma questo è cinema di impegno civile, che ha come elemento portante quello dell'indagine e della denuncia. Il Falcone privato è quello che guarda Il settimo sigillo (notazione un po' macabra, ma interessante), la sua partita con la morte. Che perderà. La morte è rappresentata da quel losco figuro che compare per tutto il film, portandosi dietro un'aria sinistra e che chiude l'opera, lasciando lo spettatore con molti, troppi dubbi. Appena sufficiente, più che altro didattico e rigido. Fastidiosi gli accenti e le cadenze siciliane forzate dagli interpreti, nonché la figura di Andreotti raffigurata di spalle (addavenì Sorrentino). Più di Michele Placido nel ruolo principale, resta il Paolo Borsellino di Giancarlo Giannini a cui, nonostante sia costretto da dialoghi impacciati, regala tutta l'umanità e la passione necessaria.
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