Regia di William Wyler vedi scheda film
Trionfo della grandeur hollywoodiana degli anni cinquanta e record di premi Oscar (11) rimasta a lungo ineguagliata, kolossal senza tempo che attraverso uno spettacolo semplice quanto elementare é farcito di enormi stratificazioni allegoriche per un modo di fare cinema oggi ormai praticamente impossibile.
Il Ben Hur di William Wyler é questo e anche molto altro.
Per la sua prima incursione nel genere pemplum Wyler decide di adattare la trasposizione filmica di un romanzo ottocentesco di Lew Wallace dal titolo Ben Hur, A tale of the Christ già adattata sullo schermo in una versione muta nel 1907 e successivamente anche negli anni Venti.
Un romanzo che é in effetti una delle più complessa e ambiziosa creazione drammaturgica di Hollywood oltre che una delle sue operazioni più costose nel suo desiderio di raccogliere tutte le emozioni umane in un’epica grandiosa e spettacolare nel narrare, sfruttando un altro titolo assai meno fortunato della grande Hollywood, “la più grande storia mai raccontata”.
La sceneggiatura iniziale fu scritta da Karl Tumberg ma fu ritenuta talmente orrenda da Wyler che chiese l’intervento degli sceneggiatori Christopher Fry, S.N. Behrman, Maxwell Anderson e, soprattutto, Gore Vidal che cestinarono il plot originale e riscrissero dall’inizio l’intero script.
Tumberg riuscì comunque a rimanerne accreditato ma il regista gli fece una tale campagna diffamatoria che fu l’unico, delle nomination vinte, a non ricevere mai l’Oscar.
Lo sceneggiatore Gore Vidal, scrittore e gay dichiarato, trovò inoltre il modo di inserire elementi trasgressivi nel rapporto di amicizia tra Messala e Ben Hur suggerendone un rapporto omosessuale più o meno esplicito (i calici intrecciati tra i due amici ne è solo un esempio) ma tenendo però nascosto la cosa a tutti. O quasi.
Solo Stephen Boyd, interprete di Messala, fu messo al corrente della cosa e infatti interpretò il personaggio secondo le indicazioni di Vidal. Invece Easton, rimasto all’oscuro di tutto, trovò modo poi di lamentarsi proprio per l’eccesivo trasporto di Boyd nella sua caratterizzazione di Messala.
La cosa però non sfuggì troppo a lungo a Wyler che, sentendosi ingannato, non la prese affatto bene. Ben Hur infatti mise fine alla sua amicizia di anni con Gore Vidal (che finì per non essere accreditato alla sceneggiatura) e i due non tornarono mai più a lavorare insieme.
La fotografia fu affidata invece al grande Robert Surtees che, a sua volta, beneficiò dell’aiuto di Harold E. Wellman e dell’italiano Piero Portalupi mentre i costumi di Elisabeth Haffender furono curati in ogni minimo dettaglio e con una profonda conoscenza storica dell’epoca trattata, risaltando specialmente nel contrasto cromatico di diverse sequenze, soprattutto quelle di massa.
Per le riprese ci si spostò in Italia e ci si affidò nuovamente alle maestranze e alle comparse di Cinecittà, a Roma, all’epoca davvero l’Hollywood sul Tevere.
Tra i tanti candidati per il ruolo del protagonista figurano anche Leslie Nielsen, proposto anche per il ruolo di Messala, Ed Sullivan, Rock Hudson, Poul Newman, l’italiano Cesare Danova e Kirk Douglas, che però declinò per dedicarsi a un altro kolossal (Spartacus) da lui stesso prodotto l’anno seguente, e, dopo il rifiuto della prima scelta Burt Lancaster, la produzione interpellò Charlton Heston, fisico imponente e non nuovo ai film in costume dopo l’interpretazione di Mosé ne I Dieci Comandamenti di Cecil B. DeMille, inoltre diretto l’anno prima proprio dallo stesso Wyler nel western Il grande paese.
Jack Hawkins, interprete del console romano, superò, probabilmente per motivi di notorietà, nei titoli di testa Stephen Boyd, co-protagonista e rivale di Ben Hur (a cui fu imposto di portare lenti a contatto marroni perché qualche consulente storico sosteneva che gli antichi romani non potevano avere gli occhi azzurri) e, a seguire, Hugh Griffith e la sconosciuta attrice israeliana Haya Harareet, Frank Thring, Martha Scott e Cathy O’Donnell oltre ai veterani Finlay Curie e Sam Jaffe.
Da notare che i ruoli dei romani furono affidati esclusivamente ad attori inglesi.
L’anno dopo Stanley Kubric per Spartacus adotterà esattamente lo stesso metodo.
La trasposizione di Wyler intende accentuare l’aspetto tragico del protagonista (una grande amicizia trasformata in odio per la brama di potere, un principe ingiustamente accusato e caduto in disgrazia in cerca di vendetta, l’affannosa ricerca per ritrovare i propri affetti familiari tra ostacoli di ogni genere) in una sorta di Passione che corre parallelamente a quella di Gesù intrecciata ai grandi elementi della tragedia classica e moderna che trova la proprio redenzione con l’adesione finale alla compassione e alla misericordia in una sua funzione cristologica (non più vendetta ma perdono), adattando i nodi della drammaturgia occidentale ai valori evangelici e alla carità cristiana.
Lentamente Ben Hur va incontro a una presa di coscienza che lo porta dalla vecchia fede ebraica ad abbracciare la nuova novella del Cristo risorto, tra riferimenti all’eterna diaspora del popolo ebraico, il razzismo nelle sue varie forme e il potere di Roma così dispotico e totalizzante da richiamare la crudeltà nazista e, quindi, il futuro l’Olocausto del popolo ebreo.
Nella più grande produzione della sua carriera William Wyler riesce a coniugare la configurazione spettacolare di un De Mille con il racconto avventuroso di John Huston, tra una meticolosa messa in scena di proporzioni enormi e l’eleganza coreografica e il dinamismo di montaggio di una grande storia popolare.
Un gigantismo che trova il suo apice proprio nella nota sequenza della corsa delle quadrighe, costato oltre tre mesi di lavoro, e realizzato grazie all’apporto anche di Yakima Canutt, coordinatore degli stuntman, Andrew Marton, responsabile di produzione delle disposizione marziale dei soldati romani, e, alla regia, di Mario Soldati e Sergio Leone.
Incalzante ed estenuante sequenza che deve moltissimo anche alla maestosa colonna sonora realizzata da Miklos Rozsa, già autore delle musiche del Kolossal Quo Vadis?.
VOTO: 7,5
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