Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film
Difficile trovare il capolaro di Sergio Corbucci. Sicuramente non lo sarà l’ancora acerbo “Massacro al Grande Canyon” e forse nemmeno i due “Minnesota Clay” e “Johnny Oro” serviti come ulteriore palestra, benchè sempre di ottima fattura e grande fascino. Ma poi, da “Django” in su tutto si complica, e la corsa al capolavoro diventa una partitaccia a poker. Il filotto degli assi è scandito così da “Django”, “Navajo Joe”, “I Crudeli”, “Il Grande Silenzio”, “Gli Specialisti” e “Vamos a Matar Compañeros”. A questi seguono dei western dal tono leggero sul modello di Trinità, come “Che c’entriamo Noi con la Rivoluzione?” e “Il Bianco, il Giallo, il Nero”. Parentesi fatta per “J.&S. - Cronaca Criminale del Far West” che fa da trait-d’unione tra una fase e l’altra della produzione spaghetti di Corbucci.
Corbucci è a tutti gli effetti il più grande regista del genere insieme a Leone. Due poetiche e due estetiche diverse che però non sono seconde una all’altra. Il successo arrivò con “Django” che conquistò l’America l’anno dopo, nel 1967. Ecco che allora anche un produttore di difficile interpretazione come De Laurentiis decise di investire alla grande sul western, addirittura coinvolgendo Marlon Brando. Al suo posto arrivò uno semisconosciuto Burt Reynolds, che si rivelerà poi l’attore giusto per il ruolo che Corbucci avrebbe diretto. Fu lo stesso regista a proporlo a De Laurentiis, con la scusa che un po’ a Brando ci assomigliava. Corbucci ricordava anche come De Laurentiis non ne capisse poi molto di western, e volesse fare più un film sul modello americano che sulla scia del neonato genere all’italiana. Ma Corbucci ebbe, fortunatamente, la meglio e il risultato è sotto i nostri occhi. Un film dall’impatto visivo straordinario che ritrae con giustizia naturale la Rambla de los Bancos, el Barrio de las Cuevas sulla strada per Granada, e che riesalta ulteriormente la ex-El Paso di “Per Qualche Dollaro in Più”, già Lincoln in “...E Divenne il più Spietato Bandito del Sud”, facendola diventare la Esperanza City di questo suo affascinante film. La magnificenza con cui l’intorno ambientale viene ripreso, con inquadrature che lo ingigantiscono miticamente quasi a dargli una connotazione magica, è la magnificenza dell’avventura, dell’uomo nella natura, degli uomini che s’incontrano, confrontano e scontrano nello scenario edenico del mondo. Un teatro naturale a cielo aperto che svela gli attori per quello che sono, che snuda l’uomo di ogni impalcatura urbana e sociale, lo rende primitivo e icona della sua istintualità, lo priva del fardello della menzogna e lo rende vero, liberandolo nei gesti, nelle intenzioni, nell’aspetto e nell’istinto. Questo lo fa il western fin da sempre, se c’è ovviamente l’uomo giusto alla regia, ma “Navajo Joe” porta alla sublimazione ciò che già s’era visto in Leone, dove gli spazi diventano deuteragonisti, e non solo primi interlocutori della dialettica uomo/spazio. Anche in Leone c’è una certa dose di violenza, resa innoqua dal lirismo della stessa, ma in Corbucci, fin con “Django”, la violenza diventa cruda, realistica. Inspessisce il suo impatto visivo e ne fa la cifra stilistica e autoriale personale. Ma va detto che la violenza di Corbucci non è una violenza esasperata, dal taglio morboso come accadrà con altri autori e in altre epoche. La violenza in Corbucci è resa realisticamente, così come deve essere. É la riproduzione di una registrazione. L’occhio vede e poi traduce in termini artistici. Ma l’assenza di fronzoli e compiacimenti morbosi fa sì che il discorso violento non sia sadico, ma realista. Questa strada, oltre che a differenziare il regista da altri grandi registi western della violenza come Leone, Peckinpah, Questi e Mattei tra i tanti, tra loro ovviamente diversi, permette anche di approcciarsi al film con una riflessione meno vigorosa sulla violenza in sé, ma spietata sulla psicologia dei personaggi. Non a caso a partecipare alla stesura della sceneggiatura c’è Fernando Di Leo, celebre per il suo apporto intellettuale all’interno dei generi storicamente popolari dalle significazioni superficiali. E questo spessore caratteriale non è rintracciabile tanto nell’Indio di Burt Reynolds, bensì nello stupendo villain di Aldo Sambrell. Infatti, mentre Navajo Joe è puro mito, pura presenza mitica dell’immaginario, il cattivissimo Duncan ha le sfumature psicologiche che una stilizzazione non ha. L’attore spagnolo, al secolo Aldo Sanchez Brell, da cui il cognome d’arte fatto dall’unione dei due cognomi reali (da notare che nei titoli di “Navajo Joe” è scritto come “Sanbrell”, quando poi diventerà “Sambrell”), dà vita ad un personaggio freudiano ma pure sadiano, abbinamento da antologia!, in cui la sua parte indiana si scontra con la sua parte bianca, creando un irrisolto psicoanalitico che lo porta ad una sorta di meticciato isterico. Questo gi fa odiare sia gli indiani che i bianchi, e quindi ad uccidere chiunque con la stessa violenza, la stessa ferocia, senza il minimo batter di ciglio che invece ha il di lui bianco fratello. La sete di morte che ha il Duncan di Sambrell, è l’avidità del dominio, del potere, del comando a cui brama un uomo quando porta con sè una turba irrisolta. La statura del personaggio è data anche dall’assenza in lui di alcune facilonerie con cui si può definire uno psicopatico: non esplode in gesti isterici plateali, non ha esplosioni di sadismo sessuale né di tensioni omosessuali sublimate nella violenza e nella tortura. Non che questi elementi siano deleteri, fasulli e posticci quando li si incontra, ma ci sono contesti e contesti. Nella caccia-lotta-difesa tra Sambrell e Reynolds non c’era bisogno di nessun altro tipo di affondo se non quello che il regista ha narrato, e che veniva dal puntuale lavoro di scrittura del testo. Ci troviamo così difronte ad una lotta di caratteri opposti, opposti in più declinazioni. Non solo lo scontro Duncan-Navajo è lo scontro narrativo tra personaggio profondo e personaggio stilizzato, e non è solo un semplice scontro di matrice razzista, ma è di più. Sembra infatti che il Duncan di Sambrell sia l’alter ego di Navajo Joe, che a sua volta è la nemesi di Sambrell, a sua volta nemesi ed alter ego insieme dell’Indio di Reynolds. Un personaggio rimanda all’altro in una lotta ad armi pari, per la quale il bandito razziatore uccide con ferocia chiunque si trovi sul suo cammino sognando la morte dell’indiano, e per la quale l’indiano vendicatore massacra tutti i responsabili di quelle violenze con una costanza e una tenacia naturali sognando di chiudere i conti con il capobranco. Il duello finale, lassù nel cimitero indiano, sembra confermare, nel suo svolgersi oltre che nella sua iconografia, la sensazione che il sadico Duncan rimandi al vendicativo Navajo Joe, e che questi rimandi al suo acerrimo rivale. La morte che li unisce è per il bandito la resa definitiva, il nulla e l’oblio, mentre per l’indiano è un continuum, una perpetuazione dell’anima navajo che non può avere un bianco (anche se meticcio, perchè la coscienza e il suo odio erano quelli dell’uomo bianco). Ecco che un bellissimo cavallo riporta i soldi a quei vigliacchi di Esperanza, soldi rubati dallo stesso Duncan quando s’era messo in affari con un ambiguo dottore locale, l’attore francese Pierre Crossoy alias Peter Cross, per poi cavalcare sempre solitario verso il deserto, verso quell’oceano di cerros tutti uguali, brulli e secchi, che ci aprono il cuore ogni volta che li vediamo.
É un film in plein air, con grande respiro visivo, di una magnificenza naturale spettacolare, dove sono stati visitati molti se non tutti i posti più significativi del western europeo: dalla Rambla de los Bancos alla Mini Hollywood, dal desierto de Tabernas al Barrio de las Cuevas, dal villaggio De Lurentiis di Roma a Tor Caldara, dal poblado madrileño Lega y Michelena alle ferrovie almeriensi di La Calahorra-Minas de Alquife e Guadix-Baza. E la natura è significativa in questa pellicola perchè è negli impervi costoni di roccia che appare mitico e quasi surreale Navajo Joe, ed è nei canaloni, nelle ramblas e nei deserti di terra secca che gli uomini trovano le loro morti più disperate. Ed è sembre la morte, di solito a cozzare con la bellezza distensiva della natura, ad essere invece il secondo termine estetico dopo il paesaggio naturale. Una morte “morta”, per la serie natura morta. Come rocce, pietre, deserti, ferrovie, villaggi, caverne, promontori e altro, anche i cadaveri sono monumenti naturali, messi lì a inghirlandare, funerei, lo spazio umano, quello vivo. Una morte che è quella dei cadaveri legati ai pali, di quelli dei viaggiatori massacrati sul treno, di quelli dei banditi che sfidano l’indiano, fino a quelli a cui l’indiano dedica più fantasia, ovvero gli ultimi due: al primo gli disegna con la lama del suo coltellaccio un simbolo indiano sulla fronte del malcapitato prima di ucciderlo con una sassata; e al secondo, Sambrell, gli ficca una scure in testa in una delle scene cult del film, per non dire tra le più conosciute e amate dell’intero genere. Un film, “Navajo Joe”, che anticipa il gioco dell’indiano come il gatto con il topo, chiaramente bianco, che tornerà per esempio in “Chato”, dove la natura è anche qui protagonista assoluta e primo interlocutore dell’opposizione cacciatore-cacciato. Ma è un film che può aver avuto ben in mente Cormac McCarthy scrivendo “Meridiano di Sangue”, storia di scalpatori bianchi assetati di morte e feroci come ossessi. Corbucci chiaramente si allontana da qualsiasi interpretazione politica e sociale pechè l’azione è padrona di ogni singola scena, ma le figure, i simboli e i caratteri in gioco fanno sì che il film abbia il suo codice intellettuale con il quale interpretare i segni di una sporca storia tutta occidentale che si ripete di narrazione in narrazione e di secoli in secoli: l’odio, la guerra, il potere, il comando, la repressione. Tutto, ovviamente, rivolto contro i diversi, le minoranze, le vite altre: in una parola contro la Verità.
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