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La belva

Regia di William A. Wellman vedi scheda film

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La recensione su La belva

di scapigliato
8 stelle

William Wellman, il regista che lasciò Hollywood prima che si corrompesse del tutto, celebra in questo film uno dei miti americani per eccellenza: l’uomo e l’ambiente selvaggio. Se poi le declinazioni di questo mito vanno da “l’uomo contro natura”, “la natura che si ribella”, “la minaccia di bestie feroci e indiani”, “l’uomo che colonizza e civilizza la terra selvaggia” fino a “uomini persi nella natura ostile che devono sopravvivvere”, non ha importanza. Wellman sceglie la carta della belva feroce, ma anche quella dell’ambiente ostile e della sopravvivenza. Le mischia con un dramma da camera (come suggerisce la ricostruzione teatrale dell’interno domestico), e con il mistero/fascino/repulsione per il Male, quello atavico, quello già presente nel mondo prima ancora che l’uomo vi mettesse le tende. Tratto da uno dei più celebri romanzi di Tilburg Clark, “Track of the Cat” miscela tra loro gli schemi del genere con il melodramma psicologico, dove giocano un peso rilevante le meccaniche dei personaggi e le vicendevoli influenze per dire una cosa su tutte: che la natura va accettata, e l’uomo in essa integrato. Tilburg Clark infatti appartiene a quella schiera di scrittori western e non che hanno fatto della difesa dell’ambiente una missione artistica. Anche nel film in questione vediamo come la natura, seppur ostile e a tratti infernale, sia natura coerente, con i suoi ritmi e i suoi tempi. Mentre è l’uomo che cerca di forzarla, di sottometterla e di “cacciarla”. Il bellissimo personaggio di Robert Mitchum riprende infatti l’archetipo dell’uomo sprezzante e cinico che vuole assoggettare la natura al proprio volere, un po’ come se fosse il Primo Grande Americano. Mentre nel personaggio dello sfortunato fratello Arthur vi troviamo l’uomo mite che la natura l’accetta, infatti muore subito. Mitchum invece è destinato a martoriarsi, a distruggersi nella solitudine e nel pericolo, per poi finire morto, quasi suicida. Il giovane fratello Harold invece è forse entrambi o forse nessuno dei due. La natura sa accettarla e capirla, ma all’occorrenza sa tenerle testa e affrontarla. Sarà lui infatti ad uccidere la Pantera, ovvero un improbabile Puma Nero. Ma può quindi, per contrasto, esser visto come l’Uomo Nuovo: che né ostacola la natura, né l’accetta remissivo, né entrambe le cose. É l’Uomo che ha compreso il suo ruolo nella natura, come parte integrante di essa. Dare le bricciole agli uccellini e colpire a morte il Puma, non sono segni contrari di un paradossale approccio al mondo naturale, ma bensì la cifra della sua integrazione.
Da un punto di vista prettamente cinematografico, il film è visibilmente molto suggestivo, con accenni all’estetica espressionista voluta proprio per marcare a fuoco l’atipicità di questo western che non di banditi e sceriffi parla, ma di un uomo contro sé stesso. Questo conflitto è portato sul piano diegetico non solo con la presenza enigmatica del Puma Nero, il cui doppio è la presenza inquietante del vecchio indiano Joe Sam, ma anche grazie alla lunga ombra di Mitchum che minaccia la quiete domestica anche durante la sua assenza. Questo innesca una serie di tensioni e conflitti particolarmente letterari la cui drammatizzazione ricorda appunto un dramma teatrale dell’America degli albori, quando a teatro si portavano in scena i primi coloni alle prese con la natura ostile. Sia il padre alcolizzato, sia la madre castratrice e bibliofila, la giovane Gwen anche lei Donna Nuova, promessa sposa proprio ad Harold l’Uomo Nuovo, e la sorella castrata e inviperita, fanno tutti parte di una grande tragedia che il regista ci racconta con i segni dell’atipicità scardinando gli schemi canonici del western e portando su un piano psicoanalitico il rapporto tra uomo e natura, tra uomo e la belva feroce, ovvero tra l’uomo e sé stesso.

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