Regia di Max Ophüls vedi scheda film
Se è possibile esprimere il controllo attraverso l’artificio della messinscena di una vita reinventata grazie al fuoco fatuo delle ambizioni,tanto più grandi quanto più modeste sono le qualità,sia umane che artistiche,se le vicende narrate non invadono lo stile della regia,non ne determinano né ne pregiudicano le scelte,facendo in modo che il personaggio non si posizioni dietro la macchina da presa sostituendo l’autore o l’artigiano cui spettano le decisioni,allora Lola Montes è in assoluto uno degli esempi più tesi e vibranti di ciò che significa regia.
Max Ophuls,con questo film che non ha solo valore di testamento,e questo col senno di poi,ma di completa fede nella riproducibilità scenica delle vicende umane,quasi fosse impossibile che l’esistenza anche più insignificante non meriti l’onore di essere narrata,all’interno di una gabbia circense che si situa all’opposto dell’idea felliniana di circo,erige un edificio imponente,invaso da un fasto soffocante,un attimo prima che crolli o che venga incendiato.
Lola Montès è l’epitome del personaggio che trova il conforto di vivere,ed una equivoca speranza nella vita stessa,solo nell’esasperazione del continuo candidarsi a vivere un’esistenza che è impossibile concepire lontano dal ruolo di protagonista,laddove questo è concesso non da un’aderenza passionale alle alterne fortune degli essere umani,e dall’intelligenza con cui le si risolve e ammansisce,ma da un’inconsapevolezza della realtà quando non consenta di recitare,senza accorgersi di dovere sostenere eternamente un ruolo che si è scelto nel momento in cui si è pensato di poter fermare il tempo.
Non sembra un caso che per interpretate un personaggio senza alcune qualità che non fosse quella di destinarsi alla fama( e qui Ophuls ribadisce il vero ruolo dell’autore,cioè quello di ignaro profeta dei tempi a venire),abbia scelto un’attrice come Martine Carol,che aderisce al suo personaggio come potrebbe fare solo un’attrice di piccolissime virtù:infatti,un’attrice vera,consapevole del proprio talento,avrebbe dirottato l’attenzione sulle virtù personali anziché sulla struggente povertà del personaggio;come è altrettanto necessario che nei ruoli di contorno,infidi o ridicoli,ci siamo valentissimi comprimari.
Su quanto sia visivamente conturbante la regia di Ophuls si potrebbero scrivere interi trattati,per come sembra abbia posizionato la cinepresa dietro le quinte di un teatro dal quale è vietato uscire,mobile come l’ottica visiva di chi spia e cerca un angolo privilegiato dal quale continuare ad assistere allo spettacolo di chi non può sottrarsi al voyeurismo perché vive delle distorsioni dello sguardo altrui,e dispiega sullo schermo le soluzioni esatte da una tragedia di ambientazioni acquatica.
Per tutto il film si ha la sensazione che Ophuls abbia deciso di concentrare tutte le scoperte e le sperimentazioni degli anni trascorsi,come non ci fosse più tempo e speranza di dimostrare altro,e impasta le scene con una scala cromatica satura fino ad essere ridondante,veste con i costumi ricchi di una festa cui si è invitati per il piacere di creare un esubero di spettatori,costumi che non si dimostrano sufficienti per coprire i corpi:non è possibile perché tutti,dal pubblico ai protagonisti,provano la tentazione di svestirsi degli abiti loro attribuiti per provarne altri,fino a reindossare i primi,usurati e che attendevano di essere rivissuti.
Distanziandosi di molto dalle esigenze di titoli genericamente biografici,Lola Montès mantiene il tono di una cerimonia lussuosamente luttuosa,l’andamento lento e impaurito di un itinerario prima di giungere al patibolo,e dimostra come chiunque decida di salire su un palcoscenico e di vivere secondo le imposizioni di una vertiginosa ambizione,alla fine sia condannato ad una eterna,interminabile rappresentazione di sé fino al collasso,alla totale perdita della conoscenza.
Lola Montès è la recita dell’amore plateale,bugiardo e affamato che estingue ogni possibilità di viverlo intimamente,di non pronunciare frasi che ne contraddicano la ripresa teatrale,e annulla il diritto di prestarsi alla condizione di un umano,praticabile anonimato:a chi ha sempre fatto in modo che il proprio nome venisse scritto come il primo di uno spettacolo,non ha il diritto di decidere quando è il momento di chiudere il sipario.
Patetico monarca che attende di rimanere abbagliato da una femminilità prepotente,incarna con tratti felicissimi e struggenti la tardiva esperienza di un amore sfruttato prima che ribadisca il facile diritto alla fuga,prima che cada la maschera.
Abbandonando la simpatia e la cordialità con cui sempre lo ricordiamo,dà vita ad un personaggio gentile come un orco ipocrita e sapidamente ambiguo.
Perfetta per il ruolo perché lo indossa come un guanto,e non sbaglieremmo pensando che la limitatezza artistica del suo personaggio,con quelle danze grevi e l’improbabile presenza da primadonna,non fosse frutto di applicazione ma realmente sua.
Da una rabbia giovane e da un’esperienza che sembra millenaria Ophuls trae la forza per una regia che forse prevedeva sarebbe stata l’ultima,e delle ultime cose ha la potenza del richiamo suggestivo e assertivo,il rigore della confessione definitiva e la tristezza sull’impossibilità di liberarsi dalle proprie prigioni delle operazione testamentarie.
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