Regia di Mario Bava vedi scheda film
Al di là della sua importanza storica, il film è intrigante per come Bava mette in scena, con impressionante potenza visiva ed espressiva, una Roma insolita, inquietante, spettrale, filtrata attraverso lo sguardo impaurito e la mente confusa della protagonista, vittima di un incubo la cui ambiguità viene resa perfettamente nel finale. Voto 7,5
Considerato unanimemente come l’antesignano del giallo all’italiana (insieme al successivo Sei donne per l’assassino, sempre di Mario Bava), La ragazza che sapeva troppo presenta effettivamente, anche se in modo ancora seminale, molti degli stilemi del genere: l’inverosimiglianza della vicenda, il/la protagonista coinvolto/a casualmente in una situazione al di fuori dell’ordinario (espediente hitchcockiano sagacemente rielaborato), l’assassino misterioso vestito con impermeabile e guanti, il doppio finale. Tutte componenti che, nel decennio successivo, verranno recuperate con le varianti del caso e portate al successo da altri cineasti nostrani (su tutti Dario Argento e Lucio Fulci), a cui inizialmente verrà attribuita l’invenzione di tali novità che, tuttavia, questi ultimi hanno solo scardinato, ispirandosi a un autore precedente (Mario Bava, appunto) che per molto tempo è stato snobbato dagli esperti del settore, cadendo del dimenticatoio. Al di là della sua indiscutibile importanza storica, il film è assolutamente intrigante e coinvolgente ancora oggi per come il regista mette in scena, grazie a un’estetica a dir poco visionaria, una Roma dapprima volutamente turistica, quasi da cartolina, per poi ribaltare la prospettiva e filtrarla attraverso la percezione della protagonista che, in quanto straniera, vede la città con diffidenza e timore, sentendosi addosso un costante senso di spaesamento e solitudine. Non è un caso, infatti, che l’unica persona che la donna conosce a Roma muoia nei primi minuti del film, contribuendo ulteriormente ad alimentare i suoi incubi e le sue paranoie. Lo sviluppo narrativo, ingarbugliato, a tratti confuso e volutamente trascurato, è solo un pretesto di cui Bava si serve per rendere su pellicola l’incubo della protagonista in una dimensione a cui si sente estranea, un concetto ampiamente sfruttato (in passato e in futuro) ma inesauribilmente interessante, accentuato dalla componente onirica e ambigua, persistente anche nel finale ironico e spiazzante. Il punto di forza della pellicola, però, è indubbiamente il risaputo mestiere del regista sanremese, che qui tocca il suo apice nelle strabilianti riprese di Trinità dei Monti, resa meravigliosamente tetra e spettrale attraverso un bianco e nero estremamente suggestivo e da una profondità di campo nelle inquadrature di impressionante potenza visiva. L’unica pecca da segnalare, a parte lo scarso interesse per la logica narrativa, è la voce fuori campo, superflua e sistematicamente fuori luogo: il rigore espressivo delle inquadrature di Mario Bava sarebbe stato sufficiente a spiegare quanto accade sullo schermo. Voto 7,5
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