Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Pietra miliare.
Luchino Visconti riporta il Neorealismo con i piedi per terra. Secondo numerose autorevoli penne, addirittura lo rinnega e lo uccide, praticando una generosa eutanasia, perché oramai il movimento aveva esaurito la sua fase più prospera ed era scaduto in un patetismo di comodo, buono solo per strappare una lacrima facile alla brava gente del secondo Dopoguerra. Io non sarei così tranchant. Di certo il Neorealismo, che aveva avuto il merito di trascinare fuori il cinema italiano dalle secche irregimentate dei telefoni bianchi, era mutato a sua volta in regola, in codice. Queste storie neorealiste tristissime, con eroi tragici dei nostri tempi che sembravano soli al mondo ad ingaggiare una battaglia donchisciottesca contro un disegno superiore, una Natura matrigna, un determinismo avverso, configuravano drammi troppo perfetti per non sembrare finte. Visconti disvela quella finzione, narrativamente e ideologicamente. Il soggetto di Zavattini, peraltro autore neorealistissimo, si presta bene: il regista lombardo dà un taglio ai nemici invisibili e trascendenti e ai filosofemi for dummies, per fare spazio all'umanità vera e pulsante, qui rappresentata dal microcosmo dello show business. Visconti sottrae il Neorealismo e i suoi eroi alla sua tensione verso l'universale e affonda le mani nel fango del suo stesso mondo. Con sguardo glaciale e mani da chirurgo lo seziona affilatamente, senza tuttavia giudicarlo o condannarlo scopertamente. Che il cinema sia finto e sia crudele non è un male, è la sua natura. È un male se diventa vessillifero oppiaceo di modelli falsi, frutto di un'artefazione a monte invisibile allo spettatore. Visconti, realista come non mai, prefigura persino alcuni stilemi della commedia all'italiana che verrà: l'amarezza, le assurdità, l'amore per il reale, e non per un'idealizzazione del reale. E poi, c'è la Magnani. Per sopra le righe che sia il suo personaggio, ispira sempre simpatia, ma mai il riso, suscita empatia, ma mai compassione. Se il film riesce a conservare una misura matematicamente esatta fra il dramma e la commedia, suo vero punto di forza, lo deve solo ad Anna Magnani. In mezzo alle ghighe luciferine della troupe cinematografica, in un mondo fatto di lustrini e di plastica, l'unica stilla di autenticità viene da lei. La scelta finale di non svendere sua figlia per trenta denari ci avrebbe fatto sobbalzare sulla sedia con qualunque altra attrice. Avremmo esclamato: «Ma che fai? Ma sei matta a rinunciare a tutti quei soldi?». Sarebbe stata per l'appunto finzione cinematografica, onere di sceneggiatura. Solo con la Magnani può apparirci come una cosa perfettamente naturale.
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