Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Quando ad inizio degli anni Novanta ormai quasi nessuno, tranne rare eccezioni, girava più western decenti, ecco giungere la classe sopraffina di Clint Eastwood a rinverdirne i fasti dell'epoca d'oro, firmando uno dei suoi vertici assoluti dell'intero decennio, dedicato a Sergio Leone e Don Siegel, suoi indimenticati mentori cinematografici. Epico e crepuscolare, di travolgente raffinatezza stilistica e fiammeggiante virtuosismo, riscopre il respiro classico del western fotografandolo nella disperazione del suo tramonto, con l'appassionata indignazione dei suoi eroi granitici e tormentati, incapaci di rassegnarsi di fronte allo scorrere inesorabile del tempo e con la commovente fierezza delle sue donne. Sono proprio i personaggi femminili, un gruppo di prostitute nel Wyoming del 1880 desiderose di vendicarsi dei due cowboy che hanno brutalmente sfregiato una di loro, a richiamare gli eroi al loro dovere, offrendo una taglia di mille dollari a chi ucciderà i due vigliacchi assalitori. Sarà William Munny (Clint Eastwood), vecchio bandito ritiratosi da una decina d'anni con i due figlioletti in una fattoria, a partire alla loro caccia insieme all'amico Ned Logan (Morgan Freeman). Gli spietati, scritto dal David Webb Peoples che fu tra gli sceneggiatori di Blade Runner e girato quasi interamente nella provincia canadese dell'Alberta, è un capolavoro perchè del western crepuscolare sposa sì l'estetica suggestiva dello sguardo contemplativo, degli spazi sterminati e dei lunghi silenzi sotto cieli carichi di nubi minacciose, ma immerge la solennità e la tensione opprimente delle atmosfere da fine di un'epoca nella rappresentazione mitica e disincantata, piuttosto che nell'apologo morale, dei suoi eroi della frontiera e della vendetta, dell'odio, del coraggio, dell'istinto di sopravvivenza, del senso di giustizia e dell'onore che li anima e li travolge. Con lampi di ironia (la storia del vecchio Corky "Due pistole" raccontata da Gene Hackman) ed improvvise esplosioni di brutalità, continuamente battuto da piogge torrenziali e scosso dal fragore dei tuoni (costringendo spesso l'azione drammaturgica a concentrarsi negli spazi chiusi, con vette di angosciante drammaticità), sorretto da un senso del ritmo e da uno smalto visivo di strepitoso fascino spettacolare (dai colori scintillanti della fotografia di Jack N. Green alle scenografie curate da Henry Bumstead, senza contare la superba colonna sonora composta da Lennie Niehaus e il montaggio premiato con l'Oscar di Joel Cox), inesorabile nel crescendo emotivo che prelude alla resa dei conti finale, maestoso nella plasticità delle inquadrature, con l'abbagliante fierezza dei volti e degli sguardi violata dalla dolente "invadenza" dei primi piani. E poi la sequenza finale, sintesi di sublime essenzialità dell'intero cinema del suo autore. Oscar anche al film, alla regia e ad uno stratosferico Gene Hackman (ma splendide anche le performance di Morgan Freeman e Richard Harris). "Ci vediamo all'inferno, William Munny".
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