Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
E’ incredibile come certi autori riescano a ripetere se stessi senza annoiare. E’ una frase fatta: “i grandi registi fanno sempre lo stesso film”. Tuttavia non si finisce mai di rimanere positivamente sorpresi, se non esaltati, ogni volta che questo semplice principio viene confermato. Specialmente nel caso di “Sinfonia d’autunno”. Questo film contiene tutto ciò che ci si attende da Bergman, sia per i contenuti sia per lo stile. Anzi: tutto Bergman ridotto all’osso, privato di qualsiasi orpello. I temi sono gli stessi che ha proposto nei precedenti e prolifici 30 anni di cinema: male di vivere, senso di colpa, depressione, malattia, lutto, sofferenza mentale e fisica, turbamenti religiosi; violenti dissidi familiari, aridità affettiva, odio verso se stessi e verso i propri familiari; dolorosa indagine del proprio passato per risalire, senza alcuna possibilità di catarsi, alla radice del proprio male. Una madre in carriera, anaffettiva e materialista, contrapposta ad una figlia credente, ma frustrata e segnata da una triste infanzia. Attorno, figure maschili che paiono fantasmi. La forma è quella essenziale e brutale forgiata da intensi primissimi piani, dove il volto femminile pare un pianeta da esplorare, un oceano nel corso di una tempesta. Spesso i volti della figlia e della madre si accostano nella medesima inquadratura o nel medesimo piano, impietosamente contrapposti e sondati da una regia che non ammette nemmeno l’ipotesi di una fuga nel sentimentalismo. Al limite, una pietà laica, come suggerito nell’ultima doppia inquadratura: due volti distrutti, su sfondo bianco e astratto, separati dal montaggio ma uniti delle scorate parole della figlia, contenute in una lettera consegnata al marito. Forse quest’ultimo, nel suo rispettoso silenzio, costituisce una sorta di impotente alter-ego del Bergman regista. La Parola dunque, fondamentale nel cinema di Bergman, a cui si accosta qui la Musica, passione che accomuna entrambe le donne, unico ambito in cui poter sublimare la propria personalità. Ma non si parli di Teatro filmato, di dominio della Parola, poiché fondamento del linguaggio bergmaniano resta l’immagine, nitida e devastante, qui al vertice della sua purezza, impreziosita (come in “Sussurri e Grida”) da un sobrio simbolismo cromatico. Si noti in particolare lo stile a cui Bergman affida i flashback: brevi scorci su un passato idealizzato (nel bene o nel male), inerti e stilizzate cartoline dall’ingannevole regno della memoria, luci soffuse su un pugno di ricordi la cui vividezza risiede paradossalmente nella loro evanescenza. Nessun primo piano in quelle scene, solo campi medi: la giusta distanza verso un vissuto dove il tepore delle luci e degli interni domestici affronta il silenzio e il gelo delle relazioni umane. Cinema maturo, ma non senile. Semplice e puro come un quadro rinascimentale o una icona medievale. Impossibile stabilire una vincitrice del duello attoriale. E’ più utile ricordare, anziché lo strazio della resa dei conti notturna, la sequenza struggente in cui Liv ascolta Ingrid suonare Chopin e volge lentamente il suo sguardo verso di lei: impossibile dimenticare quel volto dolce, infantile, sconvolto, rassegnato. L’incessante bisogno di affetto schiantato contro un muro d’indifferenza.
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