Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
Ingredienti: coppia con figlio prematuramente scomparso, vivono da soli in campagna e lei ha deciso di tenere in casa anche sua sorella, gravemente disabile, fino a due anni prima curata in istituto.
Il rapporto con la madre invece (non si vedono da sette anni) cova indifferenza da parte della prima – insigne pianista in perenne tournèe - e rancore inesploso da parte della seconda.
Decide di rivederla invitandola a casa.
L'incontro produce ovvie scintille e la chiamata in causa dell'intero scibile/casistica osservato dalla psicanalisi moderna: dai sensi di colpa alle nevrosi di ultima generazione, dalla psicosomatica agli stati d'ansia passando per una decina di sindromi non ultima quella di Arianna (odio/amore madre figlia).
Dopo tre giorni la mamma getta la spugna e torna alla sua bella vita apparentemente (ma forse neanche tanto) senza pensieri.
La figlia le scriverà rilanciando segnali di pace.
La morale resta l'ovvio appello al perdono ed alla comprensione reciproca.
Chi osserva scafatamente disincantato potrebbe rimanere di un vago deluso, certo non dalla Bergman e dalla Ullmann, mattatrici anche se forse eccessivamente caricate a molla (specie la seconda costretta in un ruolo di passività latente), ma dal contesto altamente tragediante che non poteva che generare “pianto e stridore di denti”.
Decisamente splendido il siparietto col preludio di Chopin op. 28 n.2 in la min. dove la figlia, cercando consenso, meccanizza l’esecuzione col rancore che tracima dallo spartito. E la madre riesegue, invece, sciogliendo in passione sui tasti tutto il suo amore riservato, tutta quell’ebbrezza delimitata dalla tastiera. Si può amare di un amore diverso credendolo universalmente funzionale? Non è con la stessa sensibilità, quindi, con la medesima trepidazione che spesso “ci dedichiamo”?
Bergman sembra tentennare su una possibilità di recupero ma la nostra idea è che , in cuor suo, sia rassegnato a determinate incomunicabilità.
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