Regia di John Schlesinger vedi scheda film
Passato alla storia per il modo esplicito con cui racconta una relazione omosessuale, rivisto oggi il film di John Schlesinger si connota soprattutto come un appassionato studio di “caratteri” che esplora le pieghe più nascoste e segrete del cuore umano, capace nel contempo di restituirci con assoluta precisione, anche il clima culturale dell’epoca di riferimento.
Dentro a una trama sostanzialmente priva di grandi svolte e di eclatanti eventi, è infatti un’opera giocata soprattutto sulle sfumature (allusioni, sguardi, piccoli gesti quotidiani), che mette a nudo le passioni, le delusioni, le alienazioni, l’egoismo, la passione, le viltà, i condizionamenti, le sclerosi e i tormenti dei suoi tre protagonisti (ma le parole, gli aggettivi utilizzabili per descriverne il senso di questo appassionante affresco di vita borghese fatto di solitudine, nevrosi e perbenismo, potrebbero essere davvero molti altri e tutti assolutamente calzanti).
Considerato da molti il capolavoro del regista (sicuramente è uno dei capolavori del cinema inglese di quel periodo e certamente quello in cui la natura dei personaggi e l’ambiente che li circonda, si fondono meglio diventando davvero complementari l’una dell’altro), è una pellicola di straordinaria eleganza formale, rigorosissima nell’impostazione, raffinata nella realizzazione, che controlla con mirabile equilibrio, il tono tormentato di una storia sospesa fra introspezione psicologica e sociologica precisione dei particolari: in definitiva insomma un film di struggente bellezza che mette perfettamente a fuoco quel romanticismo malinconico che predilige le mezze tinte, che è stata la caratteristica più evidente, intrigante e genuina del cinema di Schlesinger, almeno di quello del periodo più esaltante della sua carriera, che il tempo (e la prolungata attività in terra americana sottoposta alle inflessibili regole degli studios hollywoodiani), offuscherà precocemente fino ad annullarla quasi del tutto, salvo rare e preziosissime eccezioni, come vedremo in seguito.
Il film – sono parole dello stesso regista – non è sulla sessualità delle persone, di “certe” persone o di “queste” persone (e le persone alle quali si riferisce sono proprio quelle che animano il racconto di questa sua pellicola: un medico omosessuale, una donna di successo rigorosamente etero e un giovane artista bisessuale del quale i due sono innamorati), ma sulla solitudine umana che è una condizione molto diffusa nella nostra società.
Adesso forse non sarebbero state necessarie tali precisazioni, lo erano però ai tempi in cui il film fu realizzato: esplicitamente indicative di un intento e di un obiettivo, e indispensabili per non essere fraintesi. Perché Domenica, maledetta domenica – e adesso lo comprendiamo molto meglio e ne riconosciamo pienamente il valore - non è assolutamente un film che intende fare della sessualità il suo vessillo, e tantomeno di una sessualità che all’epoca era ancora considerata “deviata” (se vogliamo essere ancora più precisi, dentro alla pellicola c’è indiscutibilmente anche quella e non poteva mancare come non manca in ogni film che parla d’amore, di relazioni, di rapporti, ma - cosa particolarmente meritoria – anche la sessualità “alternativa” che orienta alcune preferenze messa in luce dal racconto, ci viene rappresentata conforme e “naturale”, normalizzata insomma in tutti i sensi e tutt’altro che “scandalizzante”. Questo, molti decenni prima che, dopo Ang Lee e i suoi I segreti di Brokeback Mountain, Tom Ford facesse un altro importante, fondamentale passo in tale direzione (A Single Man da Christopher Ischerwood) in maniera molto più esplicita e diretta di quanto non avesse già tentato di fare nel 1982 con il mieloso e troppo superficiale Making Love, un Arthur Hiller principalmente preoccupato di non urtare in alcun modo la sensibilità di un pubblico più vasto e trasversale di quello solo “gay”.
Come ben sappiamo, il limite maggiore che dopo molti anni di oscurantismo quasi assoluto continuava a “ghettizzava” la maggior parte dei film che trattavano anche lateralmente il problema dell’omosessualità, era quello di privilegiare il senso della colpa e del peccato: rappresentato quindi da personaggi ambigui, viscidi, spesso malvagi o ridotti al contrario a fatue e derisibili macchiette ballonzolanti fra mossette e gridolini e costruite apposta per sollecitare la risata grassa, riducendo di fatto una condizione reale e insita nella propria natura individuale, a uno stereotipo un po’ bieco quasi di perversione, che eludeva totalmente la vera complessità del problema difficilmente liquidabile come se si trattasse di una barzelletta. Domenica, maledetta domenica, si smarcava invece completamente da tali concezioni fortemente castranti (ed è probabilmente proprio per questo che fu considerato “scandaloso” e suscitò tanto scalpore anche indignato).
Non dimentichiamo che uscì nel 1971 e che era davvero difficile immaginare all’epoca che qualcuno avesse il coraggio di realizzare un’opera psicologicamente così limpida e diretta e narrativamente tanto semplice e immediata. Il merito dunque va tutto alla mano “militante” di uno Schlesinger in stato di grazia che seppe guidare felicemente in porto un progetto così rischioso (anche poco compreso devo dire e, nell’immediato, quasi fallimentare): lui sapeva bene di cosa si stava parlando essendone parte in causa, e questo gli permise di trovare il giusto passo e il necessario senso della misura, aggiungendoci una sorprendente dolcezza di tocco che si ritrova anche, mischiata persino con una salutare dose di ironia, nelle altre due pellicole da lui dirette che ritornano a toccare il tema “caldo” dell’omosessualità: Englischmen Abroad (Un inglese espatriato) del 1985e persino (ebbene sì!) nel non riuscitissimo risultato raggiunto nel 2000 con l’ultima sua fatica (Sai che c’è di nuovo?)che purtroppo disperde però molte delle buone intenzioni dello scoppiettante inizio, in una seconda parte piuttosto banalotta chiaramente piegata e asservita alle esigenze degli Studios che lo avevano prodotto.
Domenica, maledetta domenica è dunque – come ho già detto – uno splendido, raffinato film, ma al tempo stesso pure uno dei più importanti in assoluto nella storia non sempre felice del cinema gay (anche se – e lo ribadisco volentieri - definirlo semplicemente in questo senso come da più parti si è inteso fare, è una forzatura fortemente riduttiva perché – e chi ha avuto l’occasione di vederlo può darmene atto - la componente omosessuale è solo un elemento della vicenda (indubbiamente di particolare rilevanza, ma nemmeno il più importante), e tutt’altro che il suo fine.
Questa produzione, rientra in effetti in un momento di grande apertura del cinema inglese verso i territori poco esplorati delle attrazioni non omologate iniziato già un decennio prima con Victim di Basil Dearden, A Tast of Honey (Sapore di miele) da Shelagh Delaney di Tony Richardson entrambi del 1961 e poco altro (forse The L-Shaped Room – La stanza a forma di L (1962) di Brian Forbes e - in maniera più indotta e molto più ambigua – The Singer Not the Song – Il coraggio e la sfida (1960) di Roy Ward Baker).
Rispetto alle due opere altrettanto importanti e straordinarie firmate da Dearden e Richardson che sono le più “affini”, il film di Schlesinger “osava” indubbiamente molto di più (vedi il bacio appassionato fra Peter Finch e Murray Head che tanta indignazione suscitò nei benpensanti): non si era infatti praticamente mai visto qualcosa di così esplicito in un film non di nicchia destinato al grande pubblico, e fu di conseguenza scambiato per una provocazione, mentre intendeva essere tutt’altro che una forzata e voyeristica esibizione. Quel “gesto” appassionato ma casto, è infatti l’elemento qualificante che caratterizza l’opera, e come tale, non poteva che essere esposto in assoluta evidenza, ma solo al fine di far percepire la corrispondenza di un sentimento naturale che si estrinseca con le stesse forme partecipative sia nel rapporto uomo/donna che in quello fra due persone dello stesso sesso. Il rifiutarlo con tanta cocciuta e becera determinazione, fu dunque a mio avviso un tentativo estremo di difesa della società bigotta e conservatrice finalizzato a esorcizzare la sua paura del “diverso”.
C’è da domandarsi semmai come il regista sia riuscito a far approvare tale concessione (anche da parte dei due attori impegnati nella performance che furono davvero molto coraggiosi non solo nell’accettare, ma anche nel rappresentare con assoluta veridicità e trasporto, quel momento cruciale dell’intera pellicola). Credo (ma è una mia opinione personale) che questa fondamentale “libertà” gli sia stata accordata in virtù del clamoroso successo internazionale ottenuto dalla sua precedente fatica girata in America (e mi riferisco a Midnight Cowboy -Un uomo da marciapiede) che già sviluppava tematiche abbastanza particolari anche se maggiormente concentrate sul rapporto di amicizia e di mutuo soccorso di due emarginati fuori dagli schemi.
Quello che è importate comunque, è il fatto che qualunque sia stata la ragione, Schlesinger ha avuto così l’occasione di fare un film in fortissimo anticipo sui tempi tornando a parlare (ma allargando notevolmente l’orizzonte) delle relazioni umane e delle loro complicanze, mettendo così di nuovo a fuoco una questione spesso centrale nel suo cinema a partire dalla sua opera d’esordio A Kind of Loving – Una maniera d'amare, e cioè che non sempre (o addirittura quasi mai) queste alla fine – e soprattutto quando riguardano la sfera sentimentale - collimano perfettamente con l’idea astratta che ci si è fatti di ciò che dovrebbe essere inteso come “amore”.
Sarà stata dunque questa presunta "temerarietà dell'assunto" a spiazzare un pubblico preso di contropiede e a indurlo al rifiuto soprattutto in America? Per la verità non è che in patria (l’Inghilterra) gli sia andata molto meglio non solo come incassi, ma anche come critica, una parte della quale definì il film un’analisi abbastanza superficiale di un rapporto a tre aggravato da un’insolita e perniciosa pulsione omoerotica, liquidando di fatto con pochissima indulgenza un’opera che nonostante i tanti “no”, non tardò molto a diventare un piccolo “cult” da venerare.
E’ interessante ricordare, in relazione alla reazione schizofrenica del pubblico USA, ciò che ha scritto al riguardo Vito Russo nel suo imprescindibile saggio The Celluloid Closed – Lo schermo velato , e cioè che fu proprio quel bacio, profondo e appassionato, a provocare gli scombussolamenti più viscerali, persino più delle scene in cui i due uomini della storia erano ripresi a letto insieme (e credo che questa avversione non sia stata motivata soltanto dal puritanesimo pernicioso di quella nazione, ma che abbia arruolato nelle sue fila molti proseliti un po’dappertutto e in maniera ben più trasversale e condivisa, segno evidente di una preoccupante, diffusissima arretratezza culturale): finchè si parla di sesso, tutti ci sono abituati, ma per molti l’amore affettuoso fra due persone dello stesso sesso era ancora un elemento fuori discussione, un vero e proprio insuperabile tabù. E questo era il primo bacio affettuoso fra due uomini, che non fosse un trucco o un espediente per suscitare sorpresa. Il pubblico infatti reagì con particolare virulenza e proprio a causa di quel bacio molti cinematografi non proiettarono il film. I giornali londinesi al fine di denigrare l’opera, riportarono persino l’episodio della cantante Shirley Bassey, amica di Peter Finch, che si era lamentata anche con lui direttamente, perché quel bacio l’aveva fatta stare male di stomaco ed era dovuta addirittura uscire dal cinema (e questo credo che – senza bisogno di spendere altre parole - la dica molto lunga su come eravamo messi allora, a quale altissimo livello era l’omofobia).
Ma andiamo per gradi e torniamo alla storia che come si è già visto, è incentrata su un “insolito”triangolo amoroso che ha per protagonisti il Dottor Daniel Hirsh (Peter Finch), la divorziata Alex Greville (Glenda Jackson) e il giovane artista Bob Elkin (Murray Head), che rappresentano tre espressioni differenti di sessualità (Daniel è omosessuale, Alex etero e Bob che si divide fra i due con assoluta disinvoltura incurante della sofferenza che provoca a entrambi, bisessuale).
Nel film però non c’è alcun atteggiamento moralistico rispetto alla questione, né tantomeno voyeristico come si è visto, nonostante la situazione fosse abbastanza scottane per il periodo, e questo proprio perché i rapporti decisamente ingarbugliati, vengono trattati e esposti con assoluta naturalezza e soprattutto alla pari, oltre che con la stessa partecipata attenzione: nella triste e grigia Londra che fa da sfondo alla vicenda, il dolore di Alex e Daniel riesce così ad amalgamarsi perfettamente con il drammatico epilogo di una fine annunciata per entrambi. Eccezionale poi la metafora della ''domenica'' esposta già dal titolo, poiché è anche nel reale che la rilassatezza di quel giorno di riposo rappresenta il momento ideale per far venire a galla i ricordi, finendo così per darla vinta a una nostalgia profonda per quel che è stato e non è più.
L’equilibrio superpartes dello sguardo, nonostante che Schlesinger sia stato di fatto un gay dichiarato, è davvero invidiabile (e soprattutto salutare) poiché un eventuale (comprensibilissimo) spostamento “preferenziale” in una sola direzione, avrebbe potuto interferire negativamente sul perfetto amalgama che viene mantenuto invece intatto fino alla conclusione (e soprattutto in quella).
Al centro della storia, c’è dunque Bob Elkin, un affascinante, giovanissimo scultore e designer che intrattiene una duplice, contemporanea relazione amorosa con una donna e un uomo più anziano di lui. L’uomo, Daniel Hirsh, è un medico colto e raffinato di mezza età; la donna, Alex Greville, è un’impiegata trentenne indipendente con un matrimonio fallito alle spalle. Daniel e Alex non si conoscono direttamente, ma ciascuno sa dell’esistenza dell’altro, e soprattutto sono entrambi coscienti che si tratta di una relazione a termine perché il giovane non appartiene interamente a nessuno dei due, è sfuggevole e indipendente e cede molto poco del suo spazio: ne soffrono emtrambi, ma accettano la situazione perché la vivificante presenza del ragazzo lenisce le loro solitudini e i problemi della loro esistenza: il primo è infatti costantemente alle prese con la rigidità della sua famiglia ebraica, la seconda, con la freddezza formale dei genitori.
Le giornate (l’azione si svolge nell’arco di una decina di giorni) scorrono tra screzi, incomprensioni e riconciliazioni, scandite dal leitmotiv di una segreteria telefonica, sulla cui implacabile oggettività analitica, si infrangono le preoccupate ansie di Daniel e Alex, perennemente alla ricerca di un Bob spesso latitante.
La frattura fra i tre avviene, quando Bob annuncia improvvisamente la sua intenzione di recarsi per qualche tempo a New York, per mettervi a frutto il suo talento.
Alla fine, quando Bob parte effettivamente, i due, che hanno in comune una coppia di amici (gli Hudson) finalmente si incontrano, si conoscono , e ciascuno può di conseguenza vedere riflesso nello sguardo dell’altro, lo stesso vuoto sconforto che avverte dentro di sé. Per Alex, che reagisce accostandosi a uno stanco cinquantenne, ammogliato e senza lavoro, la partenza di Bob è la conferma delle proprie inquietudini, il presagito sbocco di un'inappagante situazione sentimentale; per Daniel è un patetico, momentaneo di stasi che non lo fa però crollare nello sconforto anche se sa che rimarrà di nuovo completamente solo, come apprenderemo meglio dal suo monologo conclusivo. Entrambi rinunciano però a consolarsi a vicenda o a leccarsi reciprocamente le ferite, comunque paghi della parte di felicità di cui hanno, nonostante tutto, goduto per aver amato.
Alex, come abbiamo visto, è una donna divorziata e indipendente ma in parte “castrata” dal gelo formale della sua famiglia.
Daniel, che non ha molti problemi ad accettare la sua natura orientata al maschile, porta invece il peso sulle spalle di complesse relazioni parentali derivanti dall’agiata famiglia ebraica da cui proviene.
Entrambi, sono due adulti macerati dall’incertezza e dalla propria tormentata solitudine, costantemente costretti a fare i conti con il proprio non felicissimo passato.
Bob, al contrario è un giovane e spregiudicato artista con una forte dose di egoismo, che offrendosi ora all’uno, ora all’altra, non trascura tuttavia di pensare prima di tutto alla propria carriera e disposto per quella a trasferirsi, che gli interessa poco o nulla delle macerie che la sua partenza lascerà dietro le sue spalle.
I tre, sono soprattutto persone “reali” colte in arco temporale molto breve: due week-end e una settimana in mezzo, sufficienti per poter mostrare il comportamento di persone vere alle prese con i propri problemi (anche sentimentali) giornalieri come scrisse Penelope Gilliam autrice della bellissima, raffinata sceneggiatura che anticipa i suoi intrecci sentimentali già sullo scorrere dei titoli di testa che mostrano il groviglio dei fili di collegamento a quella segreteria telefonica utilizzata sia da Daniel che da Alex che registra i loro mancati appuntamenti con il fedifrago Bob e le lunghe, deludenti attese. Esseri umani come tanti, ciascuno portatore delle proprie insicurezze, dei bisogni, dei propri malesseri profondi originati da conflitti interori privati e personali, trascinati a galla insieme ai disagi esistenziali di una generazione alla ricerca di nuove dinamiche sentimentali (come era quella inglese degli anni ’70 del secolo scorso) e di una borghesia che al contrario era ancora fortemente arroccata su posizioni di intransigente moralismo “perbenista” di stampo vittoriano capace di ingrigire ogni cosa, a cominciare dalla stessa Swinging Londra che qui appare molto meno attraente di quanto non risulti invece in altre opere dello stesso periodo o di poco antecedenti (sembra davvero che siano passati molto più di 5 anni dalla colorata, dinamica visione che ci era stata offerta della città da Antonioni con il suo indimenticabile Blow-up).
In questa vicenda umanissima, dolente, introspettiva, elegiaca e intimista totalmente priva di sbavature verso il melodramma, non si cerca in alcun modo di dare facili interpretazioni (e tantomeno spiegazioni) della nevrosi individuale o della repressione sociale ancora forte: ci si limita a far percepire allo spettatore l’esistenza di una sofferenza “parallela” che si estrinseca nei bisogni di una dipendenza (affettiva) resa più aleatoria dall’ansia della separazione e dalla pena dell’abbandono: poche cose come il dolore ci “affratellano” con altrettanta intensità e compartecipazione emotiva, a conferma che non ci sono divergenze tangibili nei comportamenti umani anche quando sono governati da differenti pulsioni come quelle che riguardano la sfera dell’attrazione sessuale.
Può darsi che la Gilliam avesse ragione quando affermò che questa è la storia anche di una metropoli che sta velocemente cambiando, ma a mio avviso i suoi solitari, malinconici “eroi” mi sembra che appartengano più alla sfera dell’incertezza sociale ed esistenziale che non al mondo di chi vuole (e ricerca) il nuovo.
Gli “eroi” a cui mi riferisco, sono soprattutto Daniel e Alex, che la cinepresa, con sottile, sentita sensibilità, “cattura” e ripropone evidenziando tutto il peso della loro sofferta vena malinconica. Lo sguardo del regista è comunque altrettanto cortese e delicato anche verso la figura più controversa di Bob che viene “accarezzata” sempre con calore e mai demonizzata.
Se Daniel può apparire a tratti la figura preponderante, è dunque solo per il clima ancora molto omofobo del periodo che lo rende fra tutti forse il più vulnerabile, quello bisognoso di maggiori attenzioni (non dimentichiamo che in Inghilterra solo pochi anni prima il rapporto omosessuale sia pure consenziente, era considerato un grave reato da perseguire penalmente con la massima severità). La sua è dunque una figura particolarmente intensa, piena di ferite mai cicatrizzate e di molte (troppe) speranze ormai disilluse: a suo modo è anche quella di uno “sradicato” e non solo per la sua “divergenza” sessuale: la scena del mitzvah (una funzione religiosa ebraica che segna l’entrata nell’adolescenza) al quale lui partecipa con il coinvolgimento di chi nonostante tutto non riesce a dimenticare le proprie origini, ma anche con il tagliente distacco del non credente, mostra perfettamente il suo disadattamento persino dentro lo status sociale che gli compete.
Come omosessuale comunque, Daniel sfugge ad ogni convenzione stratificata poichè in lui non c’è davvero niente di affettato, di morboso, né tantomeno di macchiettistico: è al contrario (e giustamente) caratterizzato da una vibrante umanità, si presenta con una dignità anche morale che invita al rispetto e all’approvazione, se non si è proprio incalliti detrattori “negazionisti “ a oltranza tipo Giovanardi.
In più, rispetto al cinema del periodo in cui gli omosessuali vivono quasi sempre la propria omosessualità come una disgrazia (penso ad esempio a Victim) e si macerano nel senso di colpa, qui Daniel risulta invece sostanzialmente soddisfatto di esserlo (contraddicendo in parte persino Freud), come dichiara apertamente nel famoso, emozionante monologo conclusivo diretto allo spettatore che è quasi un lieto fine, nonostante l’evidente sofferenza che però questa volta non è attribuibile al fatto di essere gay: La gente dice: “Bob non ti ha mai reso felice”. E io dico: “Ma io sono felice”. A parte il fatto che mi manca. Per tutta la vita ho cercato qualcuno che fosse coraggioso e intraprendente. Lui non lo è. Ma è qualcosa. Noi, insieme, eravamo qualcosa.
Lo sguardo è intenso e sofferente e la nostalgia evidente (difficile dimenticare ciò che esprime magistralmente il volto di Peter Finch in una scena che va ben oltre le parole): il sublime trio “Soave è il vento”1dal Così fan tutte di Mozart/Da Ponte (sul versante delle emozioni genuine) fa il resto, ed è moltissimo perché sono anche quei suoi quelle magnifiche voci che fanno scivolare spesso una furtiva lacrima di commozione autentica:
Tranquilla sia l'onda
Ed ogni elemento
Benigno risponda
Ai nostri desir…
Parimenti, con la stessa disincantata lucidità altrettanto dolorosa, anche Alex ribadirà a Bob il suo rassegnato rammarico vivificato però dall’importanza salvifica del ricordo: Mi hanno sempre insegnato che qualcosa è meglio di niente. Ora è arrivato il tempo che niente deve essere meglio di qualcosa”.
La felicità perfetta e duratura è dunque un’illusione: come le fredde e metalliche connessioni del centralino telefonico all’inizio del film, le persone si incontrano per caso e sperano solo che il loro sistema di relazioni non crolli prima che abbiano trovato il modo di connettersi e di far funzionare la cosa insieme (Vito Russo).
Eccellenti i tre attori protagonisti, con Peter Finch e Glenda Jackson colti nel momento migliore (e più emozionante) della loro splendida carriera: entrambi perfetti nel proprio doloroso perbenismo, Analogo encomio possiamo farlo all’altrettanto buona prova offerta da Murray Head che tiene bene il passo con quello dei suoi più celebri colleghi senza minimamente sfigurare nel disegnare il difficile e complesso ruolo che è stato chiamato ad affrontare.
Nelle parti di fianco, da ricordare anche gli efficaci contributi di Peggy Ascroft, Maurice Denham (i genitori di Alex), Frank Windsor e Vivian Pickless.
Da segnalare inoltre anche la fugace presenza in un ruolo secondario (il teppistello che sfregia l’auto) di un giovanissimo (credo al suo esordio) Daniel Day-Lewis.
Appendice
La tiepida accoglienza ricevuta in patria da questo coraggioso film spregiudicato e anticonformista, costrinse Schlesinger a tornare a lavorare negli Stati Uniti, dove per alcuni anni la sua carriera riprese quota anche nei consensi. Tutto insomma andò ancora abbastanza bene fino a Yankees che è del 1979. Dopo però (purtroppo), per lui la strada si farà sempre più in salita e le sue prove salvo rarissime eccezioni (Madame Sousatzka, qualcosa de The Innocent e poco altro)saranno sempre più deludenti, e soprattutto renderanno irriconoscibile e quasi anonimo il suo stile.
Per ritrovare almeno in parte il suo valore, dovremo dunque aspettare i suoi sporadici ritorni in patria chiamato a realizzare piccole opere destinate alla televisione (e da questa finanziate): Cold Comfort Farm (1995) e soprattutto il precedente, bellissimo Englishmen Abroad - Un inglese espatriato mai distribuito nei nostri cinema e (per quanto mi ricordo io) programmato soltanto in una ormai lontana nottata televisiva in edizione originale sottotitolata e che di conseguenza soltanto pochissimi italiani hanno potuto vedere.
Prodotto dalla BBC e girato da Schlesinger nel 1983 (ma i pochi dizionari di cinema che lo citano lo datano 1985 che è probabilmente l’anno in cui fu programmato in Inghilterra), si avvale della raffinata sceneggiatura di Alan Bennett (che ne ha curato anche una edizione teatrale) ed è interpretato magistralmente da Alan Bates in una delle sue più memorabili performances.
Lo spunto della storia è un episodio reale, quello in cui la grande attrice shakespeariana Coral Brown (che qualcuno ricorderà per essere stata anche una dei personaggi principali di L’assassinio di Sister George di Robert Aldrich) in tournée in Russia incontra, dopo lo spettacolo, Gay Burgess, una spia inglese al servizio dei sovietici, costretta a rifugiarsi in URSS dopo un grande scandalo politico e sessuale del quale Another Country - La scelta di Marek Kanevska ci ha raccontato la genesi partendo dagli anni del College.
La Browne che nel film interpreta se stessa, è al tempo stesso indignata e affascinata da questo bizzarro traditore che non rinnega i suoi ideali marxisti, ma è avvilito dalla piattezza e dalla povertà culturale dell’Unione Sovietica. Nonostante tutto, l’uomo continua infatti a denunciare l’ipocrisia, la crudeltà, il conformismo della vecchia Inghilterra, pur soffrendo ogni giorno per la mancanza dell’ironia, dell’eleganza, dei liquori e degli abiti raffinati ai quali era abituato.
Amorale, ma con una sorte di innocenza di fondo, Burgess vive così un doppie esilio, straniero senza appello in entrambi i paesi. Omosessuale da sempre, ha ora per compagno un bel giovanotto russo col quale però ha ben poco da dirsi, sia perché il ragazzo non condivide la sua cultura, sia perché egli non riesce ad imparar il russo.
Il finale ci regala una nota di allegria quando vediamo Burgess incedere soddisfatto, rivestito “all’inglese” grazie al pacco dono che l’attrice - tornata a Londra – gli ha spedito dalla patria perduta.
Se mi sono dilungato a parlare anche di questa successiva opera del regista è non tanto perché anche qui c’è un problema di differente identità sessuale, quanto per il fatto che a me sembra che esista un sottile fil rouge che lega fra loro due pellicole in cui l’omosessualità – benché esplicitamente racconta e enunciata – non è il centro della storia (e soprattutto non è nemmeno l’argomento principale) ma un semplice elemento circostanziale di vicende e di emozioni capaci di evocare al di là appunto delle connotazioni dell’orientamento sessuale di ciascuno, la complessità dell’umano esattamente come il regista aveva fatto ai tempi di Domenica, maledetta domenica.
1 “Soave è il vento”è stata inserita anche – e credo non a caso, anche nella colonna sonora di “Una casa alla fine del mondo” di Michael Mayer con Robin Wright Colin Farrel e Dallas Roberts
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