Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film
Non è affatto facile uscire dall’oscurità, una volta che vi ci sia precipitati. Le guerre vanno e vengono insieme alle generazioni. Ciò che rimane è appunto quell’oscurità, il lato in ombra dell’animo umano che, di tanto in tanto, erompe alla luce del giorno. E non è per nulla facile uscirne. La gente dimentica, ma chi sia affondato nel gorgo bellico, e nella conseguente disumanizzazione, non sarà mai più lo stesso e la follia di ciò che è stato, di ciò che è sempre in qualche parte del mondo e di ciò che sarà rifugge perennemente qualunque razionalizzazione.
«I look inside myself and see my heart is black / I see my red door and it has been painted black / Maybe then I'll fade away and not have to face the facts / It's not easy facing up when your whole world is black».
Full Metal Jacket (1987): scena
La guerra del Vietnam, nelle mani di Kubrick, diviene un’inflessibile atto d’accusa di qualunque conflitto e, in special modo, del legno storto dell’umanità. Full Metal Jacket, senza particolari sensazionalismi, con modalità e tempi diversi dalla maggioranza dei film bellici, lascia lo spettatore preda di un indefinibile malessere, servendosi di uno stile controllatissimo – quasi un contraltare della struttura inusuale della sceneggiatura – fatto di innumerevoli carrellate spesso in steadicam (laterali, a precedere, a seguire) non sempre stabilissime proprio per mimare immagini documentaristiche [ 1 ] e pur senza mostrare nulla di inedito oppure di in sé e per sé tremendamente violento rispetto alla media (quindi, in sintesi, ottiene un effetto simile ad un altro grandioso film, Va’ e vedi, con altri mezzi: sicuramente «diffama la guerra e l’esercito» [Morandini]).
«A differenza di Apocalypse Now, che assumeva tonalità metafisiche da opera lirica, de Il cacciatore, che si confrontava con il mito e lo spirito della Frontiera, o di Platoon, che contrapponeva il soldato buono a quello cattivo, Full Metal Jacket propone uno sguardo clinico sulla realta. [...] [Il film] prende spunto dalla guerra del Vietnam ma sfocia in un ritratto senza illusioni dell’istinto d’aggressione che anima l’uomo. In cio segue la linea logica delle altre opere di Kubrick: Shining mostrava la disintegrazione del microcosmo familiare sopraffatto dai venti di violenza e di pazzia, Full Metal Jacket estende alla societa intera la visione d'una follia omicida che s'impadronisce del mondo»[ 2 ].
Full Metal Jacket (1987): Vincent D'Onofrio, R. Lee Ermey
«E’ un film di autonomi e di fantasmi che parlano e agiscono da esseri umani ma umani non sono» (F. Di Giammatteo). O almeno che le istituzioni vorrebbero tali, “non-umani”, ovvero completamente depurati di ogni pur minimo slancio di sentimento al di fuori di un basilare, ferino, istinto di sopravvivenza (come dice lo stesso Hartman); delle “macchine di morte” inarrestabili, insensibili e indifferenti, persino nei riguardi della propria stessa, eventuale, dipartita (Di nuovo Hartman al termine dell’addestramento: «Ricordatevi sempre: i Marines muoiono. Siamo qui per questo. Ma il Corpo dei Marines vivrà in eterno e questo significa che anche voi vivrete per sempre»).
«E’ un ossessiva fuga dalla morte. Soltanto alla fine, nell’episodio del cecchino, si intravede un barlume di umanità. Ma la canzone di Topolino, che si alza atroce tra le fiamme e le macerie, annulla tutto» (F. Di Giammatteo). Il pessimismo tipico di Kubrick qui oltre al malessere inchioda lo spettatore ad un senso d’inquietudine profondo per le tragedie del mondo e della Storia, appunto quasi sempre provocate dalla brama di dominio e dal culto della violenza dell’uomo che ha non a caso nel tempo, consciamente, perfezionato l’uso della stessa contro la natura e i propri simili al fine di procurarsi vantaggi (come già ci diceva il prologo de 2001: Odissea nello spazio, “L’alba dell’uomo”).
Non siamo, tuttavia, in presenza di un’opera manichea. Il regista è interessato a creare personaggi complessi, il bene e il male coabitano in ciascuno [ 3 ]. Il personaggio di Joker sintetizza perfettamente il punto: «incarna l’ambivalenza: affezionato a Palla di Lardo, parteciperà, nonostante ciò, con i propri compagni a un’aggressione notturna ai danni dello zimbello del campo d’addestramento. Più tardi, “finirà” la ribelle vietcong che glielo chiede, con un atto che lui stesso non comprende nemmeno più (un gesto altruista o per il piacere di uccidere?), ma che fa eco al suicidio di Palla di Lardo del quale era stato testimone. Questa ambiguità impedisce qualsiasi possibile identificazione da parte dello spettatore con il personaggio» [ 4 ].
Joker, che s’è appuntato una spilla col simbolo della pace ma sull’elmetto ha scritto “Born to Kill” (“Nato per uccidere”), rappresenta plasticamente la contraddizione del mondo, in particolare nei contesti di conflitto – condizione perenne dell’umanità sin dagli albori: «la lacerante contraddizione fra ansia di vita e pratica di morte» [Mereghetti].
Full Metal Jacket (1987): Vincent D'Onofrio
Diversi quadri, nel corso del film, paiono scollegati (ad esempio, in Vietnam, i momenti con le prostitute, le discussioni alla redazione), eppure contribuiscono, in modo inusuale, non linearmente narrativo, alla costruzione del discorso: la macchina della propaganda che si preoccupa di imbellettare i discorsi inventando sempre nuovi eufemismi; il sesso ridotto ad atto meccanico e mercenario come ulteriore “valvola di sfogo” di un’aggressività coerentemente sollecitata e nutrita, atto di disumanizzazione ulteriore (delle donne) in un ambiente di totale atroce disumanizzazione (specie dei vietnamiti, “musi gialli”); l’assurdità di una guerra per la quale non si ha nemmeno la piena adesione della gente in patria, guerra che comporta anche il trucidare allegramente da un elicottero uomini e fin donne e bambini piegati sulle risaie (un flash tremendo quando i due sono diretti al fronte: «Chiunque scappa è un vietcong. Se non scappa, è un vietcong ben addestrato»);
la violenza verbale di Hartman che prepara – attraverso la metodica demolizione psicologica delle reclute – alla violenza fisica e spietata della guerra di prima linea, trasfigurata per il tramite di un umorismo nero spesso pesante quasi in qualcosa di eccitante e divertente, fin sessualmente attizzante (Joker alla fine torna a pensare a «capezzoli eretti, eiaculazioni notturne, a “Mary Jane Ficarotta”, alla fantasia della grande scopata al ritorno a casa»).
Full Metal Jacket colpisce e colpisce duro, rende partecipe chi guarda di una realtà sconfortante, imbastendo una narrazione carica di un’amarezza difficile da digerire, che – di nuovo – chiude su una nota allucinata, con la canzone di Topolino in mezzo alle fiamme, terminale constatazione della follia e dell’indifferenza (vedi il Joker di cui sopra), dell’insensatezza della guerra e in certa misura del mondo, per poi sciogliersi nelle note di Paint it Black dei Rolling Stones. Cali il sipario, sull’umanità e la sua pretesa coscienza. «With flowers and my love, both never to come back / I see people turn their heads and quickly look away / Like a newborn baby it just happens ev’ryday».
Full Metal Jacket (1987): scena
[ 1 ]M. Ciment, Kubrick, Milano, Rizzoli, 2000, p. 250.
[ 2 ] Ivi,p. 245.
[ 3 ] Cfr. Ivi, p. 247.
[ 4 ] Ivi, p. 245.
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