Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Il rapporto fra realtà e finzione, quello fra immedesimazione (personaggio) e coscienza di sè (attore), o ancora fra interpretazione (il sè proiettato in un altro corpo) e follia (un altro sè nel proprio corpo); insomma: un omaggio al cinema ed in particolare al mestiere dell'attore. Che è d'altronde il destinatario della frase completa (di Jean Cocteau) da cui il regista trae il titolo, ovvero: "Il cinema è la morte al lavoro sugli attori": e in effetti il succo della trama è nel logorio, nello scavare a fondo nella personalità del protagonista fino ad annullarlo completamente. Questo lavoro, fra i primi realizzati da Amelio, nasce per la televisione e si vede: scarne le scene (essenzialmente viene girato quasi tutto in una stanza), pochi i personaggi, audio in presa diretta; gli interpreti non sono eccezionali: passi Federico Pacifici, il protagonista, ma intorno a lui la recitazione è incerta. Sceneggiano il regista e Mimmo Rafele, da un racconto di Hanns H. Ewers intitolato Il ragno; premiato a Locarno e Hyeres, ma il miglior Amelio è altrove. 4,5/10.
Un ragazzo va ad abitare nell'appartamento lasciato da un attore suicida. Fra i mille ricordi del precedente inquilino, si immedesima nel suo ruolo, imita le vecchie glorie del cinema ed ha una serie di conversazioni mimiche con la dirimpettaia alla finestra di fronte.
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