Regia di Peter Weir vedi scheda film
Sarà pure possibile che Peter Weir stia antipatico, nonostante quel suo mezzo capolavoro che è The Truman Show e quell’altra sua piccola notevole opera che è Un anno vissuto pericolosamente. Da Picnic ad Hanging Rock in giù, il suo sguardo un po’ hindie, un po’ New Age, un po’ invecchiato figlio dei fiori, si barcamena fra storielle bislacche o banali nobilitate da uno stile che sfora il kitsch, si compiace dell’esotismo e cerca, addirittura, di commuovere. Spesso, invece, nelle sue pennellate presunte originali, circonda di banalità le sue storielle non destando, essenzialmente, alcunché. Lo stesso The Truman Show, che gira attorno ad un’idea geniale e la sviluppa ottimamente, offre una regia più anonima dei soliti di Weir (e per fortuna), offrendosi totalmente alla storia. Le altre sue storie, invece, scivolano via senza lasciare traccia. Ci sarebbe addirittura da salvare Green Card di fronte alla piattezza impressionante di Mosquito Coast.
Quindi che altro effetto può fare questo Witness se non pura indifferenza, se non tedio? Inizia bene perché inizia come il più banale dei thriller, con un omicidio violento e il bambino simil-Danny Lloyd che è furbo e scappa dal lupo cattivo. Oltretutto, quando il bambino riconosce il volto del colpevole (che noi abbiamo visto, diversamente dal volto dell’altro uomo coinvolto, perché inizialmente è tutto dal punto di vista del bambino), il film sembra prendere una piega poliziesca davvero intrigante, perché comincia ad insinuare temi quali corruzione, affetto paterno da parte di Ford (imbolsito) nei confronti del bambino, e..poco altro, in realtà, ma è un film di Weir, e solo nella banalità più “normale” Weir riesce a intrigare davvero. Poi, il patatrack, si finisce nella terra degli Amish, e a quel punto è la fine. Ford si affeziona, si avvicina alla vita di campagna, si traveste da Amish, si innamora della madre del bambino (questa madre è uno dei personaggi meno interessanti, probabilmente, dell’intera storia del cinema), si mette a costruire sinagoghe, diventa l’uomo buono che dalla civiltà cattiva torna a una purezza tutta hippie ma mostruosamente fasulla, tediosa, patinata. Il problema di Weir è forse associabile al colore verde, onnipresente, come quello convintissimo e assurdamente piatto di Picnic ad Hanging Rock.
Come dice poi Paolo Mereghetti, “Weir si ricorda che il suo film era un thriller”, ed effettivamente il finale può destare di nuovo l’interesse. Ma probabilmente è troppo tardi, dei personaggi frega poco o niente (tutti buoni o cattivi, a prescindere dal fascino presunto di questa terribile parte centrale), e che vada a finire tutto come un nulla di fatto non stupisce, perché tanto ci si è abituati a vedere questi cambi di tono pretestuosi e orrendamente autoriali. Come con pennellate di colori primari, Weir mette prima il thriller, poi la commedia, poi il dramma, poi di nuovo il thriller, rivelando di non conoscere le sfumature: quella dei generi come quelle dei caratteri. E il quadro che ne viene fuori è desolante come pochi. Un film già invecchiato, come più di mezza filmografia del “grande” Peter Weir.
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