Regia di Max Ophüls vedi scheda film
Un girotondo di figure e di caratteri che si inseguono, si raggiungono, si lasciano e si ricongiungono formando il perfetto cerchio degli incontri e delle coincidenze sulla giostra della vita. Fuori, il fascino sottile della Vienna di inizio novecento e intorno le ipocrisie e i vizi di chi cerca di negare il naturale impulso attrattivo della carne.
La ronde è un film sottilmente venato di amarezza, tutto compreso dentro quel girotondo di figure e di caratteri che si inseguono, si raggiungono, si lasciano e si ricongiungono formando il perfetto cerchio degli incontri e delle coincidenze sulla giostra della vita. Fuori dal cerchio magico in cui si muovono, parlano e agiscono i personaggi che popolano questo piccolo mondo antico carico del fascino sottile di una Vienna un po’ rococò di inizio novecento, magistralmente ricostruita con tutto la sua “finta” e variegata verità scenografica che solo il genio creativo di un artista di inimitabile talento come Jean d’Eaubonne poteva immaginare, sembra che non debba esistere nient’altro, non un termine di paragone, un contrappunto dialettico, un elemento che comunque sfugga alle regole del gioco e stia a raffigurare un realtà più connotata e realistica di ciò che ci viene rappresentato sulla scena. Ma non c’è moralismo né pedante pesantezza nel lavoro del regista: la commedia dei sessi si risolve appunto in un aereo, agrodolce minuetto dove è l’esistenza stessa a non pretendere di assumere la consistenza un po’ tediosa che porterebbe indurre ad emettere un giudizio di natura etica, ed è con ironia impietosa e divertimento amarognolo che invece si passano in rassegna le ipocrisie e i vizi con cui, a ogni gradino della società, si cerca di “giustificare” il naturale impulso attrattivo della carne.
Fondamentale, a questo riguardo, è l’invenzione di un personaggio quasi “pirandelliano” non presente nel testo di origine, che assume il ruolo del fantasioso e un po’ sornione conduttore del balletto, il burattinaio che sembra avere in mano le trame del destino. E’ lui che da il via alle danze, che prendendo l’avvio sulle assi di un palcoscenico che poi, con feconda intuizione registica, diventa il set cinematografico su cui si esibiranno, sullo sfondo appunto di quella Vienna magica e notturna sopra evocata, le dieci simboliche coppie scelte per rappresentare la sintesi di una società. A lui è affidato anche il compito di smontare la finzione, e di sottolineare le convenzioni del racconto cinematografico, di diventare insomma l’elemento straniante della narrazione, come avviene appunto alla fine dell’episodio del conte e dell’attrice, quando lo si vede intento a tagliare la pellicola, preoccupato della censura.
Non è un caso a mio avviso, del resto che Max Ophüs si sia di nuovo richiamato a Schnitzler: ci aveva già attinto nel 1932 per Amanti folli, e non credo sia stata una coincidenza fortuita il fatto che al suo rientro nella sua patria di adozione (la Francia), dopo 9 anni di esilio in America e un breve passaggio dall’Italia, abbia scelto proprio Girotondo (in originale Reigen) scritto fra il 1896 e il 1897. A guardar bene infatti, c’è una stretta connessione di rapporti fra le due opere, anche se Amanti folli, tratto da Liebelei (in italiano Amoretto) che ha ancora elementi fortemente correlati con un mélo un po’ raggelato, si appoggia su un testo di stampo ottocentesco che forse proprio nel rispetto di un apparente tradizionalismo borghese trovò le ragioni del suo immediato successo fin dalla sua prima rappresentazione nell’ottobre del 1895 da parte del plaudente pubblico viennese del “Burghertheatre”. Nessuna antitesi palese dunque, ma un “lavorare in progress” dello scrittore che si riverbera e rispecchia in Ophüs, perché, come ha osservato Luigi Chiarini nella prefazione al volume corrispondente pubblicato nella collezione di Teatro della Einaudi, il dramma contiene al suo interno anche marcate componenti di straordinaria modernità che ad onta della forte convenzionalità della sua trama, lo fanno diventare un significativo e riuscito esperimento di concentrazione drammatico-sociale, tanto da rappresentare il vero e proprio anello di congiunzione mancante nella necessaria evoluzione dell’autore dai dialoghi dei lavori della sua prima fase creativa, ben rappresentati per esempio da un testo come “Anatol”, a quelli di un opera chiave come “Girotondo”, summa eccelsa di un percorso e indubbio caposaldo del teatro del novecento.
Parlare del film, significa pertanto ripartire inevitabilmente da Schnitzler, dal suo teatro e dalla sua “scrittura drammatica” che in un testo davvero “fondamentale” per le successive evoluzioni della scena come Girotondo, ha la capacità di organizzare e di rappresentare in forma realisticamente convincente, la pantomima di un amore “che passa di mano” (o meglio da una mano all’altra), si consuma e si e si trasforma, visto però nella sua dimensione più effimera e tutta sensualmente epidermica. Non l’amore della commedia “alla francese”, sprizzante grazia e spirito, talvolta anche un pò osé, ma sempre nei limiti del buon gusto, però. L’“amore” che ci viene descritto, è infatti osservato con il profondo senso critico dell’esistenza borghese, quella proterva e sicura dei suoi contemporanei “lascivi” ma dalla inappuntabile “facciata”, sia pure interpretato e riproposto con la disincantata consapevolezza di quel profondo cambiamento (anche nei costumi) già percepibile, che sembra voler alludere a una fine imminente (quella di un’epoca e di un periodo storico), a una dissoluzione a cui i personaggi e i valori che essi rappresentano non potranno sottrarsi e alla quale dovranno alla fine rassegnarsi e arrendersi.
Si può leggere il teatro di Schnitzler sotto diversi punti di vista, si legge nella prefazione al testo pubblicato nella già citata “Collezione di teatro”: quello del positivismo, di cui fu permeata l’educazione scientifica dello scrittore; del simbolismo, dell’ibsenismo; persino alla luce della psicanalisi, che il suo concittadino Sigmund Freud proprio in quegli anni andava teorizzando e sistemizzando. Ma è soprattutto il “tono” drammaturgico si Schnitzler, il suo disincanto spinto ai limiti del virtuosismo, l’ironia che sconfina con l’amarezza a fare di una commedia come “Girotondo” un testo così attuale, è il trattamento che riserva alle creature scaturite dalla sua fantasia che oggi ci colpisce e ci affascina, quel saper tenere fra sé e il proprio mondo un margine di gioco molto netto, il trattare i personaggi come marionette mosse da un destino beffardo, in un’aurea da pantomima, in cui i gesti e i movimenti si ripetono meccanicamente, sino all’esasperazione, una modalità inusuale di esprimere caratteri e racconti, nella quale il grande regista Max Reinhardt individuò perfettamente la novità di una scrittura che si strutturava in un lavoro in superficie abbastanza osservante di una convenzionalità di fondo, ma assolutamente in anticipo sui tempi nella sostanza pratica, così capace di scardinarne le regole, da farlo diventare il frutto maturo di un teatro finalmente “diverso” e anche più necessario, profondamente innovatore e moderno.
La ronde si presenta dunque come un film di squisita eleganza in cui il geometrico meccanismo narrativo è esibito in modo tale da far diventare il soggetto stesso quasi un tragicomico resoconto “senza intrigo né personaggi”, fatto com’è di assenza e di vuoti, esattamente come il cuore dei suoi protagonisti.
Bello ed effimero come può esserlo una bolla di sapone, e altrettanto fuggevole nel proporre il passaggio repentino delle passioni e dei contatti, è un perfetto congegno ad orologeria attraverso il quale s’intravede e si percepisce una concezione desolata dell’esistenza.
Per quel mondo pacifico e borghese, esteriore e in apparenza senza problemi, Ophüs sembra comunque quasi avvertire, nel suo pessimismo di fondo, una nostalgia abbastanza scoperta, o forse l’irrealizzabile desiderio di un impossibile ritorno. Ma nel suo magnifico modo di raccontare in immagini, la nostalgia e il rimpianto (che pure si avvertono) non alterano mai (né inficiano) la sua possibilità di veder chiaro, talvolta persino impietosamente, le cose, e di scoprire così definitivamente e senza falsi pudori, l’inconsistenza di un sentimento, e soprattutto quella di chi non riesce più a trovare persino nell’amore o attraverso il compimento dell’atto sessuale (il più semplice ed istintivo degli atteggiamenti umani) il proprio senso e la propria misura.
Secondo Rivette e Truffaut, il suo modo di fare cinema era così sottile da farlo giudicare pesante, così profondo da farlo definire superficiale, così puro da farlo scambiare per licenzioso. Veniva considerato demodé, inconsueto, arcaico, quando invece trattava soggetti eterni: il desiderio e il piacere senza l’amore, l’amore senza reciprocità. Il lusso e l’incuranza erano solo la cornice più favorevole per questo quadro crudele che rendeva doloroso e sublime l’approccio e il risultato, che come in questo caso sembra ridursi al gioco esterno e insopprimibile dei sensi, dell’attrazione fisica, del piacere che unisce e disgiunge uomini e donne senza un perché, senza una coerenza o una ragione più razionale, in capricciosi ghirigori che non tengono conto di ambiente, di educazione di differenze di classi, persino dei sentimenti. Per questo non c’è conclusione nel film, è solo la fine di una parentesi, di un giro di quella giostra che continua implacabile a rullare come una trottola, così che tutto può di nuovo ricominciare, o meglio ancora, è già ricominciato: nuove schermaglie, nuove inutili, menzognere parole, nuovi amplessi amorosi senza storia. Ma anche, come già osservato, nuova solitudine, nuovo vuoto, nuova disperata, anche se composta, malinconia.
Ingegnoso e pieno di grazia, La ronde è sicuramente l’opera più stilizzata dell’autore, quella in cui meglio che in altre circostanze, riesce a far emergere e a mettere a fuoco le sue idee, ancora una volta perfettamente inserite e integrate in una narrazione di gusto e bellezza raffinatissimi, che come si è già visto, si estrinseca soprattutto attraverso il personaggio dell’imbonitore che con la sua ironia affettuosamente venata di malinconica amarezza, è lì ad indicarci proprio i nemici dell’amore (il tempo, la morte) e la sua stessa impossibilità di concretizzarsi: l’amore fallisce nella sua risibile ricerca di felicità (Claude Beyle). Non resta allora che la fuga, o l’addio (o in ogni caso e nella migliore dell’ipotesi, l‘oblio sempre in agguato, anche quando sembra essere, attraversato da vaghe reminiscenze di accorato rimpianto), che diventano le ineluttabili conseguenze del fugace amplesso che si consuma, così che ancora una volta, ma con un’evidenza più grande che mai, il preteso frivolo dongiovannismo dell’autore, sfocia nel film in un pessimismo totale.
Il regista, (firmando anche la sceneggiatura a con la collaborazione di Jacques Natanson) realizza dunque un’opera densa e importante piena di momenti memorabili, che aspira a buon diritto, in un panorama di assolute eccellenze, ad acquisire il titolo di suo capolavoro massimo, o comunque ad inserirsi di prepotenza fra i risultati più alti e compiuti di tutta la sua carriera. Si avverte nel suo film (con per altro in tutta la sua opera) persino qualche lontana reminiscenza influenzativa di ascendenza espressionista, ma mitigata dai riferimenti specifici dell’impressionismo pittorico francese e del barocco e del rococò austriaci.
Che cos’è che lo rende un film grandioso e bellissimo oltre a tutto ciò che ho già scritto sopra? Ma naturalmente la costruzione, il montaggio, l’utilizzo acrobatico della macchina da presa. Il ritmo, la forma e lo stile, fascinoso, moderno sfarzoso, ma al tempo stesso essenziale, con quei piani sequenza funambolici che durano parecchi minuti, ma così necessari, che lo spettatore li percepisce come movimenti “obbligati” tutt’altro che virtuosistici “esercizi di bravura”, che girano e si avvolgono, salgono scendono, si posano ora su un volto, ora sui corpi, ora su un particolare della scena nel vorticoso movimento dei sentimenti per sottolinearne i momenti più indimenticabili e sublimi, come quello ad esempio, magnifico, del colloquio notturno tra la moglie e il marito, un uomo non più giovanissimo occupato dai conti al tempo stesso attraenti e complicati dei suoi non indifferenti guadagni, e tuttavia dolorosamente conscio del fallimento del proprio matrimonio, e teso per questo, pur costretto com’è nelle pastoie dei pregiudizi intessuti di ridicoli e futili luoghi comuni, nell’assurda speranza di un (im)possibile salvataggio in extremis proprio di quell’unione. Ma la stretta di mano simbolica che sembrerebbe concludere in positivo la scena, non ha nulla di davvero definitivo e concreto, non è una rinnovata conquista, ma solo l’illusione di un momentaneo quanto passeggero riavvicinamento fisico, perchè la “ronde”, il “girotondo” continua implacabile, e sarà alla fine proprio il marito, quello stesso uomo insomma, a spezzare quell’effimera unione, per andare a cercare altrove quel calore, quella tenerezza che non ha potuto o saputo trovare nella moglie, e che la moglie non ha trovato in lui.
O ancora la sequenza altrettanto “grandiosa” della cameriera e del soldato: quella sera di ballo e di abbandoni che termina, come era ampiamente previsto, con un amplesso frettolosamente consumato sulla panchina di un parco, all’aperto. E poi lo stanco ritorno un po’ distratto dell’uomo al locale, già dimentico di un’ebbrezza e di una passione velocemente consumata, e il suo essere da subito già proteso alla ricerca di una nuova conquista.
Al di là della sinuosa attrattiva che emanano, le due scene trasmettono sottili, inquietanti allusioni, contengono dichiarati elementi che esprimono, con evidenza quasi fisica, la desolazione del nulla che avvolge quei personaggi trasformati soltanto in marionette in balia e alla mercé del caso e delle proprie immediate pulsioni epidermiche.
Le origini mitteleuropee del regista sono davvero ben evidenti e seppure già molto lontano dalle “radici” primarie del suo percorso creativo, risultano così profondamente “metabolizzate” nelle sue concezioni che, pur avendo lavorato soprattutto fra l’America e la Francia, Vienna potrebbe benissimo essere considerata ancora la sua patria spirituale, rimane probabilmente proprio quel mondo il suo nostalgico punto di riferimento, ed è forse per questo che non si abbandona mai a quella crudeltà, a quel cinismo fine a se stesso, quasi compiaciuto, cosi tipico dei registi francesi dell’epoca: crudeltà e cinismo si possono ovviamente ritrovare anche in La ronde (ne sono presenti di entrambi doti elevate, come possono ben fare immaginare i temi trattati), ma sono riscattati come si è già accennato, da una tenerezza consapevole, da una nostalgia mai sentimentalistica verso un mondo in via d’estinzione, o meglio ancora, forse da tempo definitivamente tramontato.
Pur giudicandoli, dunque, pur essendo conscio della loro sostanziale vacuità, egli ama i suoi personaggi, sembra persino provare quasi un senso di pietà, di pena nei loro confronti, per la loro mancanza di prospettive, per il nulla pneumatico che li circonda, per la loro intrinseca impossibilità a trovare una radice, una sicurezza, una solidarietà. Allora, quasi per ricompensarli di tanta insipienza, si compiace di consentire loro per lo meno l’illusione di una momentanea vertigine che quella specie di mago benefico che li ha fatti risorgere, li chiama a rappresentare ed esprimere sulla scena, per far vibrare il loro “sentire” anche solo un momento e compensarli così del baratro di solitudine che li circonda. Ma la felicità che egli distribuisce, è solo fittizia, non reale o autentica, ed è ritenuta tale persino da coloro che ne usufruiscono (si pensi ai dialoghi del poeta, prima con la ragazza, e poi con l’attrice, e ai sapienti e funzionali movimenti di macchina mai casuali che li accompagnano, perfetti per esprimere instabilità e irrequietezza, che è poi patrimonio di tutti i personaggi della storia, il loro inutile girare in tondo alla ricerca di se stessi. Ma per goderselo appieno, questo film anche come montaggio ed evoluzione “drammatica”, per valutarlo nella sua integrità creativa, si deve diffidare della versione italiana di 97 minuti massacrata dalla censura, particolarmente preoccupata di salvaguardare il decoro dell’epoca, che intervenne con 10 minuti di pesanti tagli e soprusi che lo mortificano pesantemente (e che si accanirono principalmente sull’episodio con Gélin che fa cilecca con la Darrieux), e rapportarsi “soltanto” a quella integrale di 110’, come quella per esempio a suo tempo trasmessa sottotitolata e in edizione originale, dalla Rai (meglio sarebbe ovviamente poter attingere a quella rieditata in Francia nel 1989 – versione effettivamente definitiva – mai in precedenza distribuita). Soltanto così si potrà infatti valutare appieno il suo stile tanto “barocco” quanto rigogliosamente decorativo (delle qualità scenografiche ho già parlato) attorno a cui ruotavano in perpetuo movimento macchine da presa che potrei definire “animate” da quanto sono mobili e pertinenti, e uno straordinario cast di attori tutti omogeneamente impegnati a realizzare al meglio i loro interventi: Anton Walbrook, Simone Signoret, Jean Clarieux Daniel Gèlin, Robert Vattier, Danielle Darrieux, Fernando Gravey, Odette Joyeux, Marcel Merovee, Jen-Louis Barrault, Isa Miranda, Charles Vessière, Gérard Philipe, Jean Ozenne, Jean Landier, René Marjac, Jacques Vertan.
Gli altri elementi che contribuiscono al positivo risultato dell’opera, sono la chiaroscurata fotografia piena di nuances sfumate di Christian Matras, i pertinenti costumi di Georges Annenkov, la suggestiva musica di Oscar Strauss e il sapiente montaggio di Léonide Azar .
Penoso e inutile il remake che Vadim ne fece ancora con questa inutile grande spolvero di nomi celebri, nel 1964 dal titolo Il piacere e l’amore”.
Tedesco di nascita, Max Ophüs acquisì la cittadinanza francese subito dopo la fine della prima guerra mondiale.
I suoi primi passi come regista li fece sulla scena teatrale, rappresentando un imponente numero di lavori di Brecht, Zweig, Hecht oltre che di opere di Verdi, Offenbach e Mozart.
Il suo stesso passaggio dietro la macchina da presa, è fortemente marcato dunque da quella passione estrema per il teatro e l’opera (uno dei suoi primissimi film, Die verkaufte Braut del 1932 è una trasposizione de La sposa venduta di Smetana e già il seguente titolo, Amanti folli del 1932 è tratto dal lavoro teatrale di Schnitzler Liebelei. Si manifesta così da subito la sua particolare vena creativa che si estrinseca come un sottile intreccio di nostalgia e malinconia, allegria e vitalità raccolti in quella forma disinvolta e un po’ frivola che lo caratterizzerà in seguito nelle opere della maturità.
Molti i titoli che potrebbero essere tirati in ballo per testimoniare il suo talento: qualcuno considera che sia proprio l’incompreso (all’uscita) Lola Montez il suo punto più alto (singolare l’immediato ostracismo che gli fu invece riservato dai produttori, dal pubblico e della critica stessa) che rappresenta davvero con il suo senso del montaggio, l’uso antinaturalistico del colore e soprattutto per la splendida fusione di tutti i temi che hanno attraversato la sua opera (l’amore, la morte, il piacere, la provvisorietà del vivere) la conclusione più geniale e rigorosa di un regista che ha fatto della coerenza il senso della sua stessa vita, e che qui si esalta ancor di più nel raccontare la storia di una famosissima cortigiana dell’800, un soggetto sentimentale tradizionale, utilizzando uno stile elaborato e preziosissimo e un tono di malinconica inquietudine che fa la differenza (e rispetto al quale proprio La ronde risulta essere l’elemento preparatorio più attinente e attendibile).
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