Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Un pappone, rimasto privo di mezzi di sostentamento dopo l’arresto della prostituta dai cui proventi dipendeva (arresto peraltro provocato indirettamente da lui, che l’aveva falsamente accusata di aver denunciato il suo precedente protettore: denuncia sporta invece da lui stesso, in forma anonima), batte inutilmente cassa dalla ex moglie, cerca di avviare al mestiere una ragazza pura e ingenua, si propone persino di lavorare; visto fallire ogni tentativo, si dà al furto ma rimane ucciso durante una rapina. Da qualunque punto lo si guardi, il protagonista è moralmente rivoltante: significativa soprattutto la scena in cui, dopo la prima giornata di lavoro della sua vita, rinfaccia alla ragazza i pochi soldi guadagnati e le rimprovera che dovrebbe essere lei a “lavorare” per mantenerlo. Ci si aspetterebbe che il film, almeno in modo velato e implicito, prenda le distanze dal personaggio, invece arriva Pasolini a nobilitarlo con allusioni cristologiche e musiche di Bach: un’operazione gratuitamente intellettualistica, esercitata su un materiale umano del tutto refrattario ad accoglierla. La cosa sarebbe stata accettabile se si fosse spinto il pedale del grottesco (vedi caso, in quello stesso 1961 un altro regista inquadrava un banchetto di straccioni come se fosse L’ultima cena di Leonardo), e invece no: Pasolini, sia pure in modo stravolto, punta alla rappresentazione realistica. Una sola cosa salva il film, le immagini: paradossalmente, ciò dipende proprio dall’inesperienza tecnica di Pasolini, alla sua opera prima; inesperienza che in qualche modo riesce a tradursi in forza espressiva. Ma nelle opere successive sarà sempre meno facile sorvolare sui peccati di uno sguardo registico che si finge innocente, mentre sa benissimo di non esserlo.
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