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Accattone

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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La recensione su Accattone

di (spopola) 1726792
9 stelle

La miseria materiale e morale  di Accattone, la sua feroce e inutile ironia, la sua ansia sbandata e ossessa, la sua pigrizia sprezzante, la sua sensualità senza ideali e, insieme a tutto questo, il suo atavico, superstizioso cattolicesimo di un pagano, sono le caratteristiche più salienti del mio protagonista(Pier Paolo Pasolini).

Accattone è il figlio di una di quelle borgate romane annidate nel terreno di una miseria antica ma mai del tutto scongiurata e dunque (per più di una ragione),  ancora attuale che, seppure rese celebri dal cinema impegnato di quegli anni e dalla letteratura pasoliniana prima maniera, rimangono tutt’ora, nonostante gli anni trascorsi e le modifiche anche sociali intervenute, una sconosciuta (e mai del tutto riscattata), terra d’esilio e di esiliati.  La “landa delle marrane”[1] insomma, abitata da quell’umanità non ancora redenta

 costretta a vivere fra cenci, lamiere arrugginite e rottami d’ogni genere in quella specie di ghetto privo di speranza e di futuro, sorto negli anni affamati del dopoguerra all’ombra della cupola di San Pietro, ai confini delle ultime propaggini di asfalto e di cemento che si perdevano nel nulla. Un’umanità  respinta violentemente dal progresso e dalla civiltà che allora, in quei tempi bui, più che  miraggi irraggiungibili, erano  veri e propri nemici da combattere e da avversare.

 Accattone, oltre a tutto questo, è comunque anche un dramma epico-religioso che stravolge e rinnova la vecchia tradizione del neorealismo: qui le immagini della vita quotidiana, sono infatti arricchite e rese memorabili, da ieratici e solenni riferimenti pittorici e musicali (Johan Sebastian Bach in primis ma anche  lo stupefacente apporto dello struggente Requiem di Mozart che  impreziosisce  uno dei momenti clou dell’opera) capaci con la loro potenza anche visionaria, di far acquisire al misero dramma dei protagonisti, una connotazione drammatica che vira verso la catastrofe.

Ma andiamo per ordine, e diciamo allora  subito che questo è stato anche lo straordinario debutto alla ragia  di Pasolini con un’opera che, per la sua forza dirompente, fu un vero pugno nello stomaco di  chierichetti e benpensanti, moralisti d’accatto e compagnia cantante. I bacchettoni di professione insomma, i difensori di una presunta morale che cominciava già a fare acqua da tutte le parti ma che poteva contare allora sull’appoggio incondizionato della viscida maggioranza di un mondo ipocrita ancora in prevalenza democristiano e come tale, abitato da  baciapile anche se soltanto di facciata. Una categoria che il tempo ha un po’ cambiato ma che non si è mai del tutto estinta e che per molti versi tutt’altro che marginali, è diventata addirittura peggiore e più aggressiva di quanto  era stata nel passato.

Pasolini trovò proprio in questo povero terreno degradato, l’ispirazione giusta per costruire un’opera molto dura coniugando però il tutto con la poesia che nelle sue opere, nei suoi scritti, non difetta mai. Qui arriva addirittura a sfiorare il mistero “scandaloso” della Grazia dentro a un percorso che porta verso una possibile redenzione quasi ascetica del suo protagonista (ed è questo che rende il suo Accattone - in apparenza solo un miserabile pappone - una figura quasi epica che potrebbe benissimo appartenere alla tragedia greca)

Pier Paolo Pasolini

Accattone (1961): Pier Paolo Pasolini

.

 

Il paesaggio umano di quelle periferie malsane, così lontano dalla condizione media della vita di quegli anni,  è lo stesso che aveva già descritto in Ragazzi di vita e Una vita violenta che trova però qui nuova linfa vitale (anche comunicativa) grazie a una cinepresa duttile e creativa utilizzata con assoluta padronanza e competenza pur essendo questa un’opera d’esordio. Ed è attraverso quella (grazie anche al fondamentale contributo di  Tonino delli Colli col prezioso bianco e nero grezzo, calcinato, senza fronzoli della sua fotografia, perfetto per dare il giusto senso a questa storia) che riesce a catturare  nella fissità dei volti spesso ripresi in primo piano, i segni di una ancestralità ieratica e sacrale che - figurativamente (ed antropologicamente) - apparteneva solo a quel sottoproletariato urbano (a lui tanto caro) non ancora contaminato dalle lusinghe ricattatorie del capitalismo borghese che di lì a poco riuscirà a corromperlo e a snaturarlo.

Pasolini insomma porta in primo piano la vita degli ultimi, figli e schiavi di una miseria atavica, derelitti alla deriva rinnegati e rimossi dalla coscienza (civile e  morale) della cosiddetta “gente perbene” (gli insulsi fustigatori della  domenica) condannati da sempre a vivere all’inferno: una  dimensione ferale in cui si consuma il dramma di esistenze ai  margini della Storia e del progresso.

 

Il critico e teorico del cinema Jean Collette lo definì per tutto questo, un’opera d’arte sfuggente e lacerata dove si respira un’aria quasi bressoniana, tanto che si può benissimo affermare che Accattone è il fratello di Mouchette poiché entrambi hanno lo stesso assetto visionario (…)  e la stessa dolorosa crudeltà capace di trasformare lo schermo in un sudario passionale che assomiglia molto a una via crucis.

Lo sguardo del regista è inquietante, sofferto e peno di pietas cristiana, perfetto per trasformare il suo protagonista in un testimone tragico dei mondezzai delle periferie di tutto il mondo (Alberto Moravia)[2]

Un Pasolini insomma che qui, per rendere ancora più chiaro il suo discorso, rinuncia (almeno a tratti) persino all’utopia marxista e sceglie così di rimanere sospeso a mezz’aria insieme al suo Accattone, i suoi compagni di sventura e le donne di malaffare che si prostituiscono per fame, ad inseguire quel sogno di un cinema diverso che gli stava così tanto a cuore.

Ed è proprio da qui, da queste premesse che nasce quest’opera davvero eccezionale dove il regista riesce a far convivere fra loro sacralità sottesa e ascetica speranza redentiva miscelate in un impasto fatto di religione pagana, cristianità, protervia, fragilità e ignoranza  dentro a un microcosmo composito abitato da  profittatori, magnaccia, ladri, morti di fame, ricattatori, papponi, puttane e piccoli delinquenti di borgata (l’epos dei diseredati si potrebbe dire). Una rappresentazione quasi “pornografica” (il virgolettato  è d’obbligo) insostenibile (addirittura inaccettabile direi) per il mediocre perbenismo italiota dei primi anni '60 che alzò gli scudi  prima per difendersi e poi per attaccare. 

Ed  è proprio questo l’errore che commise (per me strumentalmente) non so se per cecità congenita o convenienza politica (ma propendo per la seconda ipotesi), anche una parte consistente della blasonata critica nostrana che  bollò questo sofferto percorso fortemente emozionale come “un banalissimo pretesto eccentrico, morboso e un po’ volgare, costruito da un uomo avvezzo alla trasgressione fine a se stessa finalizzata a soddisfare il voyeurismo di un pubblico guardone e depravato”.

In risposta a questi benpensanti in malafede (ce n’e ancora qualcuno in giro), si può dunque replicare  senza ombra di smentita, che chiunque abbia la fortuna di assistere alla proiezione (pubblica o privata) di Accattone,  se lo fa adessocon l’animo scevro da pregiudizi o antipatie precostituite (spesso rivolte all’uomo più che alla sua opera) come invece è accaduto in passato, si  troverà  di fronte  una pellicola complessa (talvolta anche un po’ contraddittoria se vogliamo dirla tutta) di straordinaria levatura anche psicologica poiché dentro ci  troverà tutta la  dolorosa sincerità di un uomo capace di dire sempre – con stile ed eleganza formale - le cose come stanno, costi quello che costi (purtroppo anche la vita in questo caso come si è visto poi).

Quando Accattone uscì, benché fossimo all’inizio di quello che veniva chiamato “boom” (parola che ci fa già sorridere come “belle epoque” o “stile aerodinamico”) eravamo in un’altra era. Un’era repressiva difficile da dimenticare. Niente era in realtà cambiato rispetto a ciò che aveva caratterizzato (in negativo) l’Italia dei decenni precedenti compreso quello del dopoguerra, poiché la continuità fra il Regime fascista e il Regime democristiano continuava ad essere totale e inattaccabile. In Accattone i risultati di tale continuità sono evidenti ed inquietanti: primo la segregazione del sottoproletariato rinchiuso in una marginalità che assomiglia tanto a un lager; secondo, la spietata, criminaloide e  inappellabile violenza della polizia attenta a non far evadere nessuno da questo confine reso invalicabile. (Pier Paolo Pasolini)

 

 

Pasolini denuncia dunque lo stato di abbandono della Roma delle borgate, talmente diseredate da non lasciare al protagonista altre vie all’infuori di quella della morte. Al tempo stesso però, è anche il racconto e la messa in scena… degli ultimi bagliori di un crepuscolo (scusate questa digressione poetica che ha comunque sempre una matrice cinematografica):  quello del sottoproletariato suburbano. Ed è stato bravissimo a fermare l’attimo prima che tutto cambiasse (non certo in meglio) e si trasformasse in qualcosa di diverso ancora più preoccupante:  tra il 1961 e il 1975  (e sono ancora parole scritte dallo stesso Pasolini solo pochi anni dopo), si è   compiuto un vero e proprio genocidio: la distruzione della cultura di una popolazionequella del sottoletariato. La conseguenza è stata nefasta tanto (…) che se io oggi volessi rigirare Accattone  non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse - nel suo “corpo” - neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone e questa è un’altra ragione che rende importante e imperdibile un film che è da assaporare lentamente per cogliere il sapore di tutti i frutti che produce. Da  guardare insomma con gli occhi e la mente davvero privi di sciocchi pregiudizi che purtroppo – è storia di questi giorni -  continuano ad aleggiare ancora sulle nostre teste poiché come scriveva Camus (Lo stato d’assedio) il gatto morde sempre la sua coda, bellissima metafora per dirci che niente cambia e si torna sempre - inesorabilmente - al punto di partenza senza però aver imparato qualcosa dagli errori (e gli orrori) del passato. In aggiunta a quello a cui ho già accennato prima, voglio insomma a questo punto ribadire  un’altra volta che dentro ci si troverà  non solo quella sincerità senza la quale l’‘espressione artistica per quanto valida, difficilmente  riesce a raggiungere una forma totalmente compiuta, ma anche tanta rabbiosa nostalgia per un cristianesimo puro,  intriso  di autentica pietà. Un concetto questo che illumina numerose scene (come quella in  cui il ladro si fa il segno della croce con le manette ai polsi) ma che si palesa soprattutto nella sequenza  (per me straziante) del sogno in cui Accattone (o meglio Vittorio Cataldi per una volta appellato con il suo vero nome) assiste ai propri funerali (la suggestione bergmaniana mutuata da Il posto delle fragole è evidente e voluta) e dopo chiede al becchino  di scavargli la fossa non sotto l’ombra fredda di un muricciolo ma alla luce piena del sole.

Ed è da qui, da questa importante constatazione, che ritorno proprio a quello che avevo già accennato in apertura e  che riguarda la figura del protagonista, le cui azioni che lo hanno reso abietto anche agli occhi dello spettatore, finiscono - nei fatti - per entrare in collisione con quel desiderio (non tanto sotterraneo) di redenzione.

A me sembra insomma che  ai motivi  “religiosi” (espressi in forma laica però) si contrapponga qui la consapevolezza dell’evidente  impotenza di fronte all’arduo compito di offrire un effettivo riscatto a un uomo spaccato in due  fra il mondo del progresso e dell’ordine chiuso, egoisticamente attestato su posizioni di autodifesa, e quello del sottoproletariato della disperazione e degradazione umana (i “delinquenti innocenti” insomma) nel quale invece l’ordine sociale entra soltanto con le manette in tasca.

Una vita dunque votata al fallimento in cui anche l’idea di redenzione è forse soltanto un’utopia a cui rimane solo l’appartenenza a un umanesimo incontaminato tutt’altro che costruttivo perché porta inesorabilmente verso la morte (intesa come liberazione dal peso di vivere).[3] 

 

Che dire ancora se non che qui tutti i rapporti e molte delle azioni sono simboleggiate in modo quasi ossessivo (mi riferisco in particolare alle inquadrature degli occhi del poliziotto che spiano i movimenti di Accattone) e che assumono il senso di una straordinaria cartina di tornasole che racconta molto bene quanto sia difficile rigenerarsi o semplicemente cercare  di trovare una nuova via più confacente perché è proprio il sistema, l’ordine sociale dello Stato che lo impedisce.

Potrei fermarmi qui ma voglio ancora ricordare  la sequenza dell’interrogatorio in Questura oltre a tutte le inquadrature che portano in primo piano i volti (o parte di essi) di questi diseredati: una splendida galleria di ritratti che non hanno nulla da invidiare a quelli  eisensteniani (penso soprattutto a Ivan il terribile e La congiura dei Boiardi) dai quali sicuramente Pasolini ha preso l’ispirazione.

Di fronte alla vita ed alla morte di Accattone per come ce le ha raccontate il Poeta,  sorge allora lo stesso interrogativo che ha dato il titolo ad uno dei più importanti  libri del dopoguerra (parlo di Se questo è un uomo di Primo Levi) poiché è  tornata dirompente anche ai giorni nostri,  la questione assai scomoda delle responsabilità di ciascuno di noi (quella  individuale insomma) e in  questo non c’è davvero molta differenza rispetto a quello che è già accaduto più di ottant’anni fa. Se a volte ritornano  ad alzare la testa i fantasmi del passato che pensavamo di aver esorcizzato, la colpa è nostra perché non siamo stati sufficientemente bravi a farlo: la memoria è corta ed è stato fatto poco o niente perché ciò non accadesse..

Mi fermo qui perché mi accorgo che sto davvero deviando verso le questioni tutte politiche dell’oggi e rischio di scoperchiare un ginepraio, cosa che proprio  non mi va di fare.

 

 

La mia visione del mondo è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso: quindi anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica, e nella fattispecie di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre stata per sua intima caratteristica epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali. (Pier Paolo Pasolini)

 

 

La lunga strada per raggiungere la meta

 

Anche se molto chiacchierato per le sue tendenze omosessuali (e per questo inviso ai più), nel 1961 anno   in cui approdò alla sua prima regia cinematografica, Pasolini non era ancora diventato un “caso”: alle sue spalle solo due romanzi“(Ragazzi di vita” scritto nel 1951 e “Una vita violenta” pubblicato nel 1959), oltre a due raccolte di poesie (“Le ceneri di Gramsci” e “La religione del mio tempo”) che gli avevano comunque dato una certa notorietà anche se non ancora la fama.

Nonostante avesse già avuto  qualche sporadico contatto con il cinema soprattutto come sceneggiatore (vedi la sua fattiva, lunga collaborazione con Bolognini) , nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sulle sue qualità di regista.

Fu dunque tutt’altro che facilissimo il suo debutto in questo ruolo  (che poi si rivelerà fondamentale per lo sviluppo della sua poetica ancor più della letteratura).

Qualche conoscenza importante nell’ambiente l’aveva comunque maturata e cominciò proprio da qui a giocare le sue carte. Insieme a un giovane Bernardo Bertolucci ancora alle prime armi (e qui suo aiuto regista) dopo un accuratissimo lavoro preparatorio  necessario a rendere palese il suo progetto (una meticolosa scelta delle location e un intenso lavoro di reperimento di materiale fotografico) prese contatto  con quello che potremmo considerare il Gotha cinematografico del momento (nomi come Fellini, Fracassi e Tullio Kezich della Federiz e mi limito a fare solo i primi nomi che mi vengono in mente) inviando loro alcune scene del girato già montate (il lavoro di una settimana). Sorprendentemente però  dopo aver visionato il materiale ricevuto, questi esaminatore altamente blasonati, bocciarono immediatamente e senza appello il progetto valutandolo inadeguato ed estremamente sgrammaticato (peccato gravissimo e quasi imperdonabile per il loro modo di intendere il cinema). Fellini  andò addirittura oltre perché  consigliò a Pier Paolo di lasciar perdere il cinema e di continuare a interessarsi solo di letteratura. Nessuno di loro si rese insomma conto che quell’ispirazione  (per loro) troppo francescana della fotografia e quel montaggio sia pure provvisorio trovato troppo confusionario e poco efficace, derivavano invece direttamente da quella che era stata la fonte ispirativa originaria: la  lezione estetica lasciataci in eredità dal grande regista russo Sergej Ejzenstejn (mica noccioline!!).

Dopo i tanti no ricevuti, arrivò però in suo aiuto Bolognini che lo mise in contatto con Alfredo Bini e Cino Del Duca (il vero finanziatore del progetto) che decisero di concedergli fiducia quando ormai  aveva quasi perso quasi tutte le speranze. Questa la testimonianza dello stesso Bini: Pasolini era una persona che capiva, discuteva, ora aveva ragione ora no ma l’accordo si trovava sempre come succede con le persone intelligenti, con le personalità sicure. (…)Al cinema non aveva mai fatto niente come regista quando ha cominciato con me. Scrisse Accattone e lo propose alla Federiz, la società di Fellini, Rizzoli e company nata con La dolce vita. Quando andarono in proiezione col girato di una settimana però  si spaventarono (soprattutto Fracassi). “Per carità, una stronzata che tecnicamente non sta in piedi”. Il responso fu questo e annullarono tutto. Pasolini era disperato. Bolognini mi disse “guarda che questo si ammazza”. Al che io lo chiamai (…) e cominciammo facendo dei provini. E vidi che sì, era rozzo, che non aveva ancora la padronanza del mezzo tecnico ma si capiva benissimo cosa volva fare con quella fotografia, quel modo di girare che furono poi il pregio e lo stile del film.

Superato questo primo ostacolo arrivò il problema della scelta del cast (tutt’altro che secondario).  Per il ruolo del protagonista (spinto anche dalla produzione), Pasolini all’inizio pensò di utilizzare un attore conosciuto (Franco Interlenghi nella fattispecie) ma qualcosa non gli tornava. Sentiva infatti il bisogno di una faccia vera, sofferta che si amalgamasse meglio con il resto degli interpreti in maggior parte presi direttamente dalla strada e trovò poi, grazie a Sergio CItti, proprio in suo fratello Franco  completamente digiuno di recitazione, la persona che a suo parere, più ancora che interpretare le caratteristiche  del personaggio, poteva impersonarle (viverle dall’interno insomma e farle sue) e mai una scelta coraggiosa e temeraria come questa risultò essere  la più giusta e appropriata.

Sergio Citti  la ricorda cosi:  (…) non è vero che Accattone avrei dovuto interpretarlo io. Pier Paolo non aveva mai pensato a me, perché tanto sapeva che proprio non me la sentivo di recitare. Così fin dall’inizio avevo in testa mio fratello Franco. (…) Personalmente, non credevo che Pasolini sarebbe riuscito a fare recitare mio fratello, perché Franco era un timido, musone, se ne stava zitto e buono tutto il tempo. Invece Pier Paolo lo seppe sciogliere.

 

Le disavventure del film  non finirono certo qui però. Si accentuarono notevolmente al momento in cui l’opera fu terminata  ed era in attesa di essere distribuita.Pasolini  subì infatti forti pressioni e un vero e proprio ostracismo da parte dell’allora Ministro del Turismo e dello Spettacolo e il risultato fu il divieto ai minori di diciotto anni, il primo nella storia del cinema italiano, stabilito addirittura con apposito decreto. L’opinione pubblica non fu da meno però: tutt’altro che pronta (e disponibile) ad accettare le crude tematiche trattate, fece quasi una mezza rivoluzione per cercare di bloccarne la libera circolazione in sala. Come era già accaduto con i film del neorealismo nell’era andreottiana, Accattone diventò quindi un caso che coinvolse tutta la politica italiana a partire dalle alte sfere.. Se ne dibatteva infatti animatamente  nelle aule parlamentari dove sproloquiavano a vanvera con un fiume di parole  di inappellabile condanna, i cosiddetti “rappresentanti del popolo” strenui difensori della morale  in perfetta e totale sintonia con l’Italietta di quei giorni che voleva continuare a tenere nascosta la sporcizia sotto il tappeto. La stampa naturalmente non fu da meno e insorse subito a dare manforte al Governo: i pennivendoli prezzolati  cominciarono subito a spargere a man bassa i loro veleni con articoli che invitavano, con particolare livore e un disgusto ipocrita, a boicottare l’opera. La manipolazione era evidente: si  voleva continuare a mantenere inconsapevoli e ignoranti le masse, e conservarle cosi compatte nel rifiuto di ogni forma di diversità, compreso quelle  del pensiero e delle idee. Per il mediocre “perbenismo” italiota dei primi anni 60 era dunque impossibile accettare l’umana solidarietà  che Pasolini propugnava con il suo film verso questo universo di disperazione che “doveva” restare  invisibile' agli occhi miopi di una borghesia carnefice e oppressiva. Dalla sua posizione privilegiata, questa non poteva tollerare insomma di dover avere a che fare con ciò che Pier Paolo mostrava senza alcuna mediazione o abbellimenti di comodo.

Accattone  appena fu terminato, nonostante non avesse ancora il visto della censura per la distribuzione nelle sale, passò anche da Venezia inserito, sia pure fuori concorso,  nel programma della Mostra del Cinema di quell’anno ma nemmeno questo riuscì a rendere giustizia all’opera: la cosa peggiorò semmai ulteriormente. Si ricorda infatti la serata della proiezione (il 31 agosto del 1961) come una delle più turbolente (in negativo) di tutta la storia del Festival. Si consumò infatti lì uno dei più gravi, sordidi e incivili episodi di linciaggio di un’opera dell’ingegno e del suo autore. Il pubblico in grandissima parte formato dalla cosiddetta alta borghesia “illuminata” (proprio quella presa di mira da Pasolini che l’aveva definita "la più ignorante d'Europa") reagì pesantemente fra urla, fischi e offese mentre la sala lentamente si svuotava poiché furono davvero pochi quelli  che seguirono la proiezione fino fin fondo. Della critica ho già parlato prima: salvo rari casi, soprattutto da destra (ma anche quella di sinistra fu poco tenera) fu pollice verso. Come  ricordano le cronache dell’epoca infatti, , non risparmiò strali polemici nei confronti del poeta divenuto neo-cineasta, ritenuto incapace di svincolarsi dagli esiti estetici della sua letteratura.

E come è successo spesso in casi come questo, fu ancora una volta la Francia a riconoscere per prima la grandezza della pellicola: la critica fu entusiasta e unanime alla prima proiezione fatta a Parigi. E da lì poi  (finalmente) la strada fu tutta in discesa.

 

SINOSSI

Accattone (nomignolo attribuito al protagonista a causa dell’accattonaggio da lui praticato nell’infanzia) è la storia di un magnaccia che vive in una borgata sorta ai margini di Roma sfruttando la sua fidanzata Maddalena che si prostituisce per mantenerlo. Non ha mai lavorato, nemmeno quando era sposato con Ascenza da cui ha avuto anche un figlio. Quando Maddalena viene arrestata Accattone non sa più

 come fare a mettere insieme il pranzo con la cena. Prova a tornare dalla moglie che lo caccia senza nemmeno ascoltarlo. Poi incontra Stella, una bella ragazza buona e ingenua, figlia di una prostituta, un fiore cresciuto nel fango.

Accattone pensa di avviarla alla vita di strada, ma Stella proprio non ce la fa: al primo incontro con un cliente si mette a piangere disperata e lui a questo punto è disorientato ed entra in crisi perché sente nascere dentro di se un sentimento per la ragazza  mai provato prima. Da qui , da questa nuova scoperta di se stesso, nasce la sua ricerca disperata di una via di riscatto e decide che è arrivato il momento di pensare lui alla sua donna andando a lavorare.

Dopo una giornata di duro lavoro a cui non è abituato. mentre sta tornando a casa distrutto dalla fatica, vien4e deriso dai compagni di borgata: “solo le bestie lavorano” gli gridano dietro. Risucchiato nuovamente dall’ambiente e dalla vita che finora l’ha formato, decide di provare un’altra soluzione a lui più confacente: sarà qualche furtarello organizzato con il suo amico Balilla che lo aiuterà a  portare a casa la pagnotta, ma il primo colpo pianificato ai danni di un furgone di salami finirà male  e sarà di conseguenza anche l’ultimo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     

 

Macrì Teresa detta pazzia

Fu Nazareno Annamè

Abito a via der Mandrione

Alla baracca ventitré

Ci ho diciott′anni

Embè, è così

Che voj da me?

Me do alla vita

Da più de n'anno

Che altro ancora voj sapé?

So′ disgraziata

Ma ci ho un ragazzo

Che sa che sarvo ognuno pare un re

Je passo er grano

Embè, è così

Che voj da me?

Sì, lo vesto da testa ai piedi

La rasta, i bighi, la capezza

Er busciardello d'oro

Me s'è allumata che ero ciumaca

Mentre che stavo a lavorà

Lui è danzone e me portava

Sulla Gilera a danzà

Tutto pastoso

Embè, è così

Che ce voj fa?

Pe′ più de n′anno tutta moina:

"Io me te sposo" e qua e là

Poi è venuto per me er momento

Pe' ripiegamme a camminà

A Caracalla

Embè, è così

Che ce voj fa?

E mo′ che te sei messo n'testa?

N′à faccio 'sta cantata de core

Nun ce so′ n'infamona!

Io so de vita, sor commissario

Ormai so' fatta, eccallà

Un giorno o l′altro ce lo sapevo

Che me toccava annà a prova le mantellate

Aò! Pe′ me a tremà nun sta!

Solo me rode se me chiudete

Che s'arritrova senza argent

Ma a ogni modo per quarche tempo

Con l′oro mio camperà senza fa' buffi

Aò! Pe′ me a tremà nun sta!

None! None! Nun lo dico er nome!

Er nome suo nun lo ricordo

Se chiama amore e basta!

https://www.youtube.com/watch?v=1KCZhxBl1is

(Testo di Pasolini musica di Piero Umiliani

 

 Cristo al mandrione

https://www.youtube.com/watch?v=fBrcCEuqeV8

(Testo di Pasolini – musica di Piero Piccioni

Ecchime dentro qua
tutta ignuda e fracica
fino all'ossa de guazza
'ntorno a me che c'è?
Quattro muri zozzi, un tavolo, un bidè

Filame se ce sei Gesu Cristo,
guardeme tutta zozza de pianto,
abbi pietà de me!
Io che nun so gnente
e te er Re dei re!
Lavorà senza mai rifiatà
moro ma l'anima nun sa

Filame se ce sei
Gesu Cristo!

 

[1]Nella campagna romana, il termine marrana è comunemente usato per indicare e circoscrivere le zone suburbane (una volta forse anche paludose) abitate da derelitti  e attraversate da fossi e piccoli corsi d’acqua che le rendono anche poco salubri.

 

[2] Per Moravia Accattone è molte cose insieme (pezzo pubblicato su L’Espresso del 1° ottobre1961): il secolare scetticismo romano, il relitto di una società ancora rustica e artigianale, il prodotto di una alienazione totale, ma è soprattutto l’espressione di un’inconscia volontà suicida”

 

[3] Lo sguardo del regista sugli uomini e i luoghi reali dove è stato girato (Torpignattara e il Pigneto ripresi senza alcun abbellimento o ricostruzioni) è fortemente antinaturalista. iI sottoproletari delle borgate r5omane rappresentano per lui figure di una mitologia arcaica. Pasolini parte da corpi, volti, fisionomie di attori presi dalla strada, da paesaggi e sfondi originali e su essi opera un grande lavoro stilistico “estetizzante” creando contrasti tra l’aspetto visivo  quello uditivo e arricchendo le immagini con la musica e il (parziale) doppiaggio (Accattone interpretato da Franco Citti, è doppiato da Paolo Ferrari, Ascenza interpretata da Paola Guidi è doppiata da Monica Vitti). Chiaroscuri netti, panoramiche, lunghi primi piani frontali che sembrano rimandare alla cultura del primo rinascimento, restituiscono la visione religiosa di Pasolini su questa umanità pagana e scandalosa che vive sull’orlo della morte. Il senso di sacralità                               viene affidato invece interamente alla’utilizzo della musica (La Passione secondo Matteo di Bach al momento della rissa di Accattone ha innanzitutto questa funzione estetica. Si produce una sorta di contaminazione tra la violenza della situazione e il sublime musicale. Ma simultaneamente svolge anche una funzione didattica. Si indirizza allo spettatore e lo mette in guardia, gli fa capire che non si trova di fronte a una zuffa di stile neorealista, folcloristica, ma dinanzi a una lotta epica che sfocia nel “sacro” e nel “religioso”. (L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti di Franca Faldini  e Goffredo Fofi,  Feltrinelli editore).

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