Regia di John Ford vedi scheda film
'Il cavallo d'acciaio' - infelice traduzione che dimostra la scarsa 'dimestichezza' con i metalli del titolista di allora, dato che in tutti gli altri paesi 'The Iron Horse' fu, correttamente, tradotto con 'Il cavallo di ferro', ossia le parole con cui i nativi, nel loro colorito linguaggio, indicavano il treno, che per i coloni significava il progresso, ma per loro solo una minaccia alle loro abitudini di vita millenarie - è forse il film di John Ford più famoso dell'epoca del muto ed è un vero e proprio kolossal, imperniato su un soggetto che abbraccia tanto il genere western quanto quello storico.
Il lungometraggio narra con respiro epico un fatto decisivo per il progresso della cultura e dell'economia a stelle e strisce e della sua estensione sempre più verso Occidente dell'immenso territorio degli Stati Uniti d'America, vale a dire l'unione delle due linee ferroviarie Union Pacific e Central Pacific, avvenuta, dopo mille peripezie, il 10 maggio 1869.
L'approccio di Ford alla materia parte dall'innestare personaggi immaginari - il figlio dell'ingegnere Brandon, Davy (George O'Brien) e la figlia del costruttore Marsh, Miriam (Madge Bellamy) e tutti gli altri che ruotano attorno a loro, il loro perdersi da bambini e il loro ritrovarsi da adulti, lungo il territorio su cui costruire le linee ferroviarie, tra vendette, imboscate, sparatorie, tradimenti, battaglie con gli indiani - e renderli protagonisti sullo sfondo di un evento storico, dando un tono epico e drammatico ai fatti narrati, ma come sempre, contaminando con delle azzeccate spruzzate dell'altrettanto suo caratteristico umorismo, che hanno il compito di alleggerire un po' la seriosità dell'argomento trattato.
Se da un lato la parte tematica del film si perde in alcuni punti in toni smaccatamente elogiativi dello spirito americano, approntato alla rincorsa della cosiddetta 'frontiera', senza tener conto dei danni provocati alle culture già presenti nel paese, i pellerossa, qui trattati come dei cattivi a tutto tondo - ma i tempi del revisionismo nel western non sono lontani ma lontanissimi - dall'altro si può tranquillamente affermare che la componente filmica intrinseca è di livello assoluto: una capacità narrativa straordinaria, riscontrata in pochi altri film del periodo - che fa si che le due ore e mezza di un film muto non facciano sentire la loro proverbiale 'pesantezza' - a scapito di una scarsa mobilità della cinepresa di quei tempi, compensata dall'utilizzo virtuosistico della grammatica del cinema, primi piani, figure intere, campi lunghi e montaggio, uno sguardo unico sul paesaggio che fa da quinta alle vicende e una 'modernità' nel dirigere gli attori - con le pantomime del muto ridotte all'osso - i quali paiono già 'preparati' per il vicino avvento del sonoro.
Una pietra miliare di un maestro.
Voto: 8 (v.o.).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta