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Yuppi du

Regia di Adriano Celentano vedi scheda film

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La recensione su Yuppi du

di kerouac
6 stelle

Il paradiso può attendere, almeno in Italia. Il paese delle morti bianche e delle vie Gluck asfaltate si è dimenticato di crescere da più di trent’anni . E Yuppi Du esiste per ricordarcelo. Il film di Celentano sembra una profezia, un promemoria vitale, impulsivo, kitsch ma anche estremamente lucido: dopo La dolce vita e Salvatore Giuliano, quante altre volte il cinema italiano è riuscito a leggere con simile preveggenza i problemi futuri della nazione? O meglio, il futuro che non c’è stato, perché il presente narrato in questi film non è poi tanto cambiato. Celentano non ha bisogno di grandi intellettualismi per spiegare un malessere così avvertito, preferisce cercare una storia emblematica che sia anche un piccolo romanzo popolare (ovviamente diretto a modo suo): Felice, povero operaio veneziano, si risposa sei anni dopo la presunta morte della prima moglie, però inconsapevolmente diventa bigamo…

Yuppi Du potrebbe trasformarsi in una farsa leggera o in un tipico esempio di commedia all’italiana, ma Celentano pensa in grande, e ben presto la storia si colora di sfumature sociali ed esistenziali imprevedibili. Lo sguardo del cantante si posa su ogni cosa, senza risparmiarsi: bigamia, morte sul lavoro, inquinamento, una Milano di visi pallidi che vive solo in metropolitana, ed infine l’eterno conflitto tra la povertà  che crede all’amore e la ricchezza innamorata del denaro. Celentano tuttavia non si limita ai temi. Infatti Yuppi Du più che un film sembra un happening, uno spettacolo che coinvolge e disorienta il pubblico con giochi di prestigio continui. Sospetto di esibizionismo? Forse,ma l’esagerazione è un prezzo da mettere in conto per chi vuole sfidare il modo tradizionale di pensare il cinema. Soprattutto il cinema italiano. Musical? Commedia? Tragedia? Sperimentazione? Celentano si espande ovunque, senza per forza obbedire alle regole di ciascun genere. L’importante è smuovere l’apatia dello spettatore, forse per  compiacere la propria creatività prima della storia, ma il regista non abbandona mai la disperazione grottesca: la nasconde, per liberarla in un finale che sembra un pugno (allo stomaco) senza carezze.

Celentano non ha il dono della misura e del silenzio che renderebbero il suo film apocalittico fino in fondo, eppure ci lascia tramortiti, invischiati, scossi. Come in un incubo. E con l’illusione intensa di aver seppellito il denaro, cantando sulla tomba della banconota il credo laico di umanità che dà il nome al film. Almeno per una volta.

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