Regia di Edgar G. Ulmer vedi scheda film
Immersi in un bianco/nero cupo e metafisico, tuffatevi senza farvi troppe domande in questo incubo notturno declinato nei registri del noir. A metà tra beffarda burla e thriller esistenziale, il Detour di Ulmer potrebbe essere accostato ad altre opere (non solo cinematografiche), più che per la storia in sé per sé proprio per lo stile asciutto e il tono ermetico che lo contraddistinguono: qualche analogia con Lo straniero di Camus la ci si può trovare, ma è recondita, legata più alla narrazione in prima persona di un naufragio dell’anima; con La donna del ritratto di Fritz Lang c’è una sorta relazione nella messa in dubbio di se stessi e di ciò che si è fatto, quasi a non voler credere a quel che in realtà è palesemente reale. Detour, però, ha qualcosa di più. È secco, arido, dalla morale (c’è una morale, sottile e silenziosa) amara su un Paese indecifrabile (l’America, qui sullo sfondo, poco partecipe ma presente). Chi lo accredita come un B-movie non sbaglia, ma chi ha mai detto che i B-movie sono film di serie B? I mezzi sono mediocri, è vero, la messinscena è faticosa a causa della povertà strumentale. Ma tutto è funzionale, non c’è una sbavatura od un minuto di più. Nell’oretta e una manciata di minuti della visione è come entrare in una nube di fumo metropolitano nella quale è difficile addentrarsi, per poi uscirne e suonare nervosamente un pianoforte, fare l’autostop ed essere invasi dall’angoscia. Teso come il filo di un telefono attorcigliato al fine di suicidarsi, oscuro come una notte in autostrada, umido come una pioggia battente ed inaspettata, livido come un pensiero allucinante in un momento di crisi. È un altro film sulla memoria (forse più sul ricordo), che prende accenti sfuocati ed incomprensibili, quasi a voler sottolineare per l’ennesima volta che niente è come sembra, che l’apparenza è la più grande fregatura in cui l’uomo possa imbattersi. Film sul caso e sul destino. Film sull’arcano che si fa verbo.
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