Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film
Apparentemente potrebbe sembrare un resoconto deciso, secco, asciutto su una storia inquietante. Potrebbe far accapponare la pelle per l’indecifrabilità dei volti, l’irrequietezza mascherata, l’angoscia che si respira. E invece no. Bello, sì, e chi lo nega. Ma statico, glaciale, asettico. L’obiettivo di Il mistero von Bulow, forse, poteva essere proprio questo: destabilizzare lo spettatore non tanto per la storia (di uomini sospesi tra una effettiva criminalità dell’anima e la gogna mediatica ne abbiamo visti fin troppi – soprattutto nella realtà), quanto per il suo stile rarefatto, patinato, lezioso. Sconcertante non è che Jeremy Irons venga accusato di volersi sbarazzare della ricca Glenn Close, regina dei salotti, ma come Barbet Schroeder ponga il pubblico davanti ad un bivio con beffarda supponenza: caro pubblico, vuoi abbandonarti nelle atmosfere da rotocalco d’appendice senza farti troppe domande o vuoi, sì, porti domande sull’inquietudine che si materializza nei personaggi e nei luoghi in loro funzione? Dramma legale, con una sottile propensione nello scadere negli Harmony di stampo nero, sembra scritto da un Dostoevskij ebbro dopo una conversazione appassionata con Liaia. Ambiguo fin quanto si vuole, con un finale di enigmatico nervosismo, è tuttavia un film interessante, irritante, curioso. Jeremy Irons si è aggiudicato l’Oscar, ma chi scrive ha apprezzato maggiormente la prova sofferta di una Glenn Close bravissima.
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