Regia di George Seaton vedi scheda film
Ecco uno dei film più belli per festeggiare degnamente una festa comandata. Favola moderna e senza tempo (o fuori dal tempo), non è soltanto una garbata e graziosa commedia fantastica con protagonista nientepopodimenoche il signor Babbo Natale (al secolo Kris Kringle, nome con cui gli americani chiamano Santa Claus), ma anche un clamoroso manifesto rooseveltiano che non stenterei ad associare alle stesse istanze del post-neorealismo (o neorealismo rosa).
C’è un fil rouge che unisce una serie di film realizzati all’indomani della guerra che corrispondono a determinate fasi del dopoguerra americano: in questa manciata di pellicole, ne prendo in considerazione tre, I migliori anni della nostra vita (il ritorno dal fronte e il problema del reinserimento dei reduci), La vita è meravigliosa (la necessità di un futuro positivo nonostante le avversità) e, appunto, Il miracolo della 34a strada. All’origine della storia con cui Valentine Davies e George Seaton vinsero due Oscar (rispettivamente per soggetto e sceneggiatura) c’è un presupposto: Babbo Natale esiste perché esistono l’immaginazione, la fantasia e il sogno.
Queste tre componenti sono essenzialmente legate alla dimensione naturale dei bambini, che hanno bisogno di credere in Babbo Natale prima di svegliarsi adolescenti con i brufoli invadenti e il cuore straziato. A perpetuare questa convinzione sono però due entità, che agiscono per due motivazioni diverse: i genitori, che non vogliono privare i figli della possibilità di credere ai desideri (nonostante la mamma protagonista abbia cresciuto la figlia in uno stato di completa disillusione: sono interpretate dalla deliziosa Maureen O’Hara e da una giovanissima Natalie Wood), e i produttori di prodotti natalizi (giocattoli, regali vari, addobbi…) che hanno la necessità di illudere i bambini per vendere quanto più possibile ai genitori (possibilmente fondi di magazzino). La certezza dell’esistenza di Babbo Natale destabilizza ogni cosa e costringe a rimescolare le carte in ogni campo (educazione, commercio, giustizia).
Il film è il passaggio definitivo dal dramma post-bellico (si sente nell’aria, sebbene non venga mai esplicitata, l’atmosfera di rifondazione sociale e culturale) al recupero del sogno americano in funzione anche politica e non soltanto puramente cinematografica. Probabilmente il film di Seaton ha contribuito più di qualunque trattato a stabilire concordia e serenità all’interno del popolo americano all’indomani del dolore: è una favola lieta e serena, ma anche qualcosa di più universale e trasversale.
Non è un caso che il cattivo sia il viscido psichiatra: è schematicamente (ed ingenuamente) la rappresentazione del razionalismo scevro di qualunque potere immaginifico. E non è un caso che a salvare la situazione sia il giudice (un bonario Gene Lockhart), quasi a simboleggiare l’impegno della nazione per la tutela del sogno. Che ha le fattezze di un anziano ed adorabile signore con la barba bianca, istintivamente amato da coloro che sanno ascoltare le ingannevoli ed indispensabili esigenze dell’anima: lo interpreta Edmund Gween, ed è inutile dire quanto sia meraviglioso.
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