Regia di Richard Fleischer vedi scheda film
“I Romani avevano i centurioni per mantenere la pace, ed erano malvoluti e antipatici a tutti come noi. Ma riuscirono a tenere duro e per parecchio tempo, finché Roma non fu travolta dai barbari”. I nuovi centurioni, oggi, sono gli agenti di polizia che pattugliano le strade violente e malfamate di Los Angeles. Un gruppo di uomini diversi tra loro ma uniti da un destino comune, quello di mettersi al servizio di una società che li disprezza e li allontana, e ne travolge le vite come i barbari con i centurioni. Un gruppo di uomini e le loro vite private, i loro problemi con le mogli, le nevrosi quotidiane e i sensi di colpa. Tra questi, l’attenzione della sceneggiatura di Stirling Silliphant (basata su un romanzo di Joseph Wambaugh), si concentra soprattutto su due colleghi che fanno servizio insieme: il vecchio Kilvinski (George C. Scott), divorziato e solo, prossimo alla pensione ma ancora umano nei suoi rapporti con i colleghi e con la gente, ed il giovane Roy (Stacy Keach), sbirro per necessità che ha interrotto gli studi di legge per garantire un futuro alla moglie e alla figlia ma che subisce inesorabilmente una trasformazione da idealista a disilluso tutore della legge. Il regista Richard Fleischer ci racconta le loro giornate, i piccoli arresti quotidiani, lo squallore con il quale devono confrontarsi, le loro paure e quelle delle loro compagne, il loro malinconico desiderio di normalità. I nuovi centurioni è secondo me uno dei più interessanti eppure sottovalutati film di genere che il cinema americano degli anni Settanta ci abbia lasciato. Un’opera di potente impatto emotivo, un poliziesco che si discosta dall’impostazione classica del genere per concentrarsi su un umanesimo che deve fare i conti con una società marcia e malata. Fleischer (regista da riscoprire per il suo importante contributo dato al cinema statunitense), gira senza manierismi, è bravissimo nel realizzare le scene di azione ma dà il meglio di se nel minimalismo dei volti e degli stati d’animo dei suoi personaggi. Ma quel che più emerge, soprattutto nella seconda parte, è un pessimismo disperato e radicale che poche altre volte si era visto al cinema. È incredibile notare quanto non si conceda alcuna speranza ai protagonisti, la cui struggente parabola va incontro ad un destino beffardo senza alcuna illusione salvifica e senza via di scampo. Film bellissimo, coraggioso fino quasi al masochismo nel suo essere antihollywoodiano e anticonsolatorio. Grande merito anche ai due interpreti principali: Stacy Keach, che in quegli anni indovinava una serie di ruoli memorabili, prima di scadere in dimenticabili produzioni televisive; ma soprattutto George C. Scott, un mostro di bravura che non ha bisogno di presentazioni, e che tratteggia un personaggio di triste e dolente solitudine.
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