Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Superbo courtdrama, evergreen se non proprio classico del genere per la sapienza del ritmo e il dosaggio dell’eloquio, Il verdetto è un film dei primi anni ottanta che somiglia un po’ al cinema della tradizione americana del genere più che ad un preannuncio del cinema che sarà: d’altronde potendo contare su un sistema giudiziario spettacolare, il legal drama, quando avvincente ed coinvolgente, è intrinsecamente americano (qualche esempio di altissimo profilo: La parola ai giurati, Anatomia di un omicidio, Il buio oltre la siepe). D’altro canto, la sceneggiatura di David Mamet suggerisce un minimalismo di sguardi e silenzi assolutamente mirabile (il fallito accordi tra gli avvocati nella stanza del giudice, il socio del protagonista che scopre un inganno qui non riferibile, il cardinale che sorseggia il caffè, i dettagli fondamentali raccontati dalla regia e non da didascaliche battute), nonostante il genere di riferimento sia in qualche modo l’apoteosi della parola e del suo uso strumentale.
Paul Newman ne ricava tutto il bene perché trova in questo sgualcito avvocato alcolizzato uno dei ruoli più belli della sua carriera, giocando sull’impossibilità dello stupore nei suoi stupendi occhi azzurri, sulla rassegnazione d’una camminata incidentata e sull’inadeguatezza di chi non si sente al proprio posto. Accanto a lui gli straordinari Charlotte Rampling e Jack Warden in ruoli archetipici, ma val la pena citare il finissimo James Mason, principe del foro star, la cui espressione sorpresa nel momento cruciale del processo merita molti elogi. Dirige Sidney Lumet, già autore del capolavoro La parola ai giurati, che introduce nella messinscena i residui teorici della già oltrepassata New Hollywood, e cioè agendo all’interno di un genere consolidato individuando una cifra nuova (che qui sono la misura e la sobrietà nel raccontare la vicenda crepuscolare di un alcolizzato redento). Grande film d’intrattenimento puro, grande cinema di eleganza ruvida ed amarissima tensione morale.
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