Regia di Lawrence Kasdan vedi scheda film
All'indomani della sua uscita nelle sale, dalle pagine dell'Indipendente il critico Giovanni Grazzini, che già non aveva digerito la vittoria di Grand Canyon al Festival di Berlino, scrisse che «...intendiamo equiparare il film per metà a una requisitoria e per metà a una predica, a un pletorico minestrone di moralistici luoghi comuni, espressi con uno stile che ricorda molto da lontano l'emozionante Grande Freddo». Secondo me non era e non è il caso di andarci giù così duro. Il film di Kasdan è lungo più di due ore ed ha indubbiamente delle cadute di tono, così come una visione di fondo troppo ottimistica, quasi che bastasse immergersi nelle meraviglie della natura per rendersi conto della piccolezza dei nostri affanni quotidiani. Ad ogni personaggio, qui, è data una speranza, col cambiare il proprio carattere oppure restando sé stessi. In questo senso, Grand Canyon è meno rispondente allo spirito dei tempi rispetto ad un'opera che anticipa ed alla quale, per certi versi, somiglia, come America oggi (1993) di Altman (a parte l'ambientazione losangelina, la struttura multifocale, l'incidenza del caso sui singoli personaggi, perfino la presenza incombente ed inquietante del terremoto). Probabilmente, proprio in questo suo significato "pacificante", risiede la maggiore qualità di un film da non sopravvalutare, ma neppure da stroncare alla leggera. Peccato che sia poco approfondito il personaggio del produttore-regista splatter Davis (l'unico che resta ben saldo ai suoi principi, legati allo sfruttamento di un genere cinematografico violento ma redditizio), affidato all'interpretazione di Steve Martin.
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