Regia di W. S. Van Dyke vedi scheda film
Nonostante il tono moraleggiante il film dopo decenni conserva una sua indiscussa e sorprendente suggestione
Ricordo di aver guardato per la prima volta San Francisco sulla Tv Tunisia il cui segnale veniva generosamente rimbalzato in Italia dalla ionosfera. Era la parte finale in cui Clark Gable si aggirava tra le macerie di San Francisco in un bianco e nero invaso dalla polvere e rimasi particolarmente rapito da quelle immagini che evocavano analoghe scene di smarrimento di fronte alla devastazione, questa volta umana, che qualche anno dopo avrebbero nuovamente avuto Gable come attore protagonista.
San Francisco, anno 1936, è tratto da un soggetto di Robert E. Hopkins ed ebbe una prima sceneggiatura curata da Herman J. Mankiewicz, fratello del noto regista, a cui ne seguì una seconda di Anita Loos, via via revisionata fino alla versione su cui lavorò W. S. Van Dyke solo 2 anni dopo il clamoroso successo de L’uomo ombra. I titoli di testa ricordano con malincuore come la “regina tra i porti marittimi - operosa, matura, rispettabile” era la rimpianta città “splendida e sensuale, volgare e magnifica” distrutta dal terribile terremoto del 18 aprile 1906.
Il film si apre allo scoccare della mezzanotte che segna l’inizio dell’anno 1906. “Blackie" Norton (Clark Gable), ateo e temerario gestore del lascivo Paradise Club in Pacific Street, nella malfamata Barbary Coast di San Francisco, viene riconosciuto e salutato festosamente da vari cittadini festeggianti del quartiere. Dopo poco un incendio, il terzo nella settimana, costringe due ragazzini a lanciarsi da un balcone dell’albergo Bristol, segno delle brutte condizioni abitative del quartiere dovute a strutture fatiscenti.
Mary Blake (Jeanette MacDonald), giovane bibliotecaria di Denver oltre che cantante in Chiesa, in quanto figlia di un pastore protestante deceduto anni prima, arriva a San Francisco per trovare lavoro all’Opera e, perso quasi ogni bene nell’albergo in fiamme, si rivolge a Blackie il quale, mettendola alla prova, la assume per la sua sorprendente voce. Mary diventa rapidamente famosa e viene notata dal facoltoso Jack Burley (Jack Holt) e dal maestro Baldini (William Ricciardi) della Tivoli Opera House i quali premono affinché passi a lavorare con loro. Blackie però tiene stretta la ragazza, a cui fa una corte insistente, con un contratto di due anni; nel frattempo si candida, osteggiato dallo stesso Burley, ad ispettore al servizio antincendi di San Francisco su pressione di alcuni cittadini appoggiati dal suo amico d’infanzia padre Tim Mullen (Spencer Tracy) il quale, oltre a considerare San Francisco la città “più depravata, corrotta e atea dell’America”, è convinto che, dietro la scorza da duro, Blackie abbia un cuore tenero. Tutti sperano che, una volta eletto, Blackie possa attuare significative riforme legislative per risolvere il problema della ricostruzione dei quartieri della costa.
Mary però, malvista da alcuni colleghi per la sua vicinanza affettiva a Blackie, decide di andare a lavorare con Burley a cui lo stesso Blackie intenta indispettito una causa, salvo cambiare idea dopo aver ascoltato Mary nel Faust di Charles-François Gounod, che lo colpisce al punto da indurlo, dopo la prima, a dichiararle esplicitamente il suo amore e prometterle il matrimonio. Mary torna così a lavorare al Paradise ma padre Tim si scandalizza nel backstage per il costume scosciato della ragazza, scatenando l’ira di Blackie che reagisce colpendolo con un pugno.
Mary turbata va via con il prete sanguinante e torna da Burley la cui madre (Jessie Ralph) la convince, avendo avuto da giovane un’analoga esperienza amorosa, a scegliere il figlio quale sposo, ché potrà amarla e avere con lei figli onesti (al contrario degli abitanti di San Francisco). Non contento, il 17 aprile 1906 Burley fa in modo che il dipartimento di polizia chiuda il Paradise a cui è riuscito a far ritirare la licenza per la vendita di alcolici. Blackie per riaprire il locale confida nel premio de Le 9 Muse ma non riesce a trovare artisti che si esibiscano per il suo locale. Quando nessuno sale sul palco, Mary, appena venuta a conoscenza delle malefatte di Burley, partecipa alla competizione per conto del Paradise e vince intonando una trascinante San Francisco (diretta addirittura da David Wark Griffith a cui Van Dyke aveva fatto da assistente per Nascita di una Nazione), ma Blackie rifiuta sdegnosamente il premio. Dopo poco un terremoto spaventoso colpisce la città. Blackie, uscito miracolosamente vivo dal crollo di una parete, vaga tra rovine, tra gente ferita e cadaveri, alla ricerca della giovane amata. Vedendo Burley morto teme che anche la donna abbia fatto la stessa fine. Dopo aver incontrato la madre di Burley, desolata di fronte allo sfacelo della città ed alla distruzione mirata delle abitazioni volta a contenere gli incendi, ritrova l’amico Tim, che lo accoglie senza rancore e lo porta in un campo di senzatetto dove si ascolta Mary cantare l’inno Nearer, My God, to Thee. Blackie sente di dover ringraziare Dio e nel frattempo si sparge la voce che gli incendi siano terminati, per cui lui e Mary si uniscono alla folla mentre lasciano il parco cantando The Battle Hymn of the Republic. Si assiste in chiusura alle immagini della San Francisco del futuro.
Film particolare perché mescola una storia romantica, con venature da commedia, al musical e soprattutto, nell’ultimo quarto, al genere catastrofico, di cui fu probabilmente l’iniziatore. Le spettacolari scene del terremoto (effetti speciali di Russel A. Cully) sono indubbiamente di notevole efficacia, nonostante si sia ad inizio ‘900 e manchi qualsiasi supporto tecnologico avanzato per la ricostruzione scenografica degli eventi.
In San Francisco tutto è ammantato da una vena religiosa e moraleggiante tant’è che vi sono ben tre personaggi che ne costituiscono un richiamo: Mary, con la sua ingenua moralità pastorale; padre Tim che ha scelto la strada “giusta” rispetto al biscazziere Blackie, suo amico di infanzia (Van Dyke segue lo stesso archetipo che ha adottato ne Le due strade); la signora Burley, infine, che desidera per il figlio una famiglia rispettabile quando osserva la gozzovigliante alta borghesia dei vicini.
A ben vedere vi è uno smascheramento del perbenismo di facciata, tant’è che i ricchi appaiono come i più corrotti (si pensi allo stesso Jack Burley che specula sulle miserie della città e corrompe con sfacciata disinvoltura un giudice) e il recupero morale pare addirittura prendere corpo dai ceti meno abbienti, da cui del resto proviene la stessa signora Burley, come nel caso del violento e sbrigativo Blackie o di qualche ballerina di scena.
Si insiste dunque più volte nella descrizione di una città postribolo e un po’ fatiscente sulla quale il disastroso evento, con la distruzione di tutti i beni materiali e la scomparsa dei corrotti, pare far piazza pulita del malaffare e agisce da catalizzatore per la redenzione delle “anime buone” secondo quel criterio di ribellione della natura che rimanda in qualche modo la mente al significante dell’ascetico finale di Stromboli.
Il film dopo decenni conserva una sua indiscussa e sorprendente suggestione soprattutto per le scene terribili dello sconvolgimento urbano ma anche perché il cast mantiene egregiamente le promesse, nonostante certi vocalizzi gorgoglianti della pur brava MacDonald, ben capace di rendere sullo schermo le incertezze morali della protagonista, alla lunga un po’ stufino.
In pieno stile Van Dyke si va veloci e si corre il rischio che la ricostruzione psicologica dei personaggi rasenti a tratti la superficialità tipica del ricorso rapido a certi schemi cinematografico-caratteriali poco elaborati, come ad esempio nel caso di Blackie, sebbene Clark Gable giganteggi per efficacia durante il finale catastrofico. Lo stesso Spencer Tracy, nonostante interpreti un personaggio moralmente piuttosto compresso, dà fin da giovane piena evidenza delle proprie qualità attoriali.
Diverse le candidature all’Oscar per San Francisco tra le quali quella per miglior film, vinto invece da Il paradiso delle fanciulle, e miglior regista, vinto da Capra con È arrivata la felicità.
Era previsto un finale alternativo in cui Blackie e Mary, ormai sposi, accompagnati dai loro figli, apparivano nella San Francisco moderna.
La canzone che dà il titolo al film diventerà uno degli inni ufficiali della città. Nearer, My God, to Thee fu invece l'ultimo brano suonato dall'orchestra del Titanic prima del suo affondamento.
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