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I basilischi

Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film

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La recensione su I basilischi

di port cros
8 stelle

L'esordiente Wertmüller dipinge con mano sicura e leggera un ritratto impietoso di un asfittico e sonnacchioso microcosmo rurale pugliese, che ha plasmato giovani incapaci di destarsi e fuggirne. Un'indagine sociale capace di introspezione psicologica e condita da una pungente dose di ironia e da un pizzico di grottesco.

 

scena

I basilischi (1963): scena

 

 

Opera prima scritta e diretta dall'appena scomparsa Lina Wertmüller, è una sconfortante, seppur ironica, immersione nel mondo rurale di un paese contadino della Puglia dei primi anni 60.

Girato a Minervino Murge, paesone stiracchiato su una collina tra barese e foggiano, la regista ha raccontato di aver tratto spunto per il soggetto da una visita al villaggio natale del padre, nella confinante Basilicata. 

Lo stiracchiamento del centro abitato fa da specchio all'atmosfera che vi domina: l'indolenza è il tratto distintivo, già nell'incipit, dedicato a mostrare la siesta che tutti gli abitanti del villaggio tassativamente si concedono dopo pranzo, rito talmente irrinunciabile da far pensare che “Morfeo dovrebbe essere fatto Santo patrono e portato in processione al posto di Sant'Antonio”. I basilischi, rettili mitologici capaci di uccidere con lo sguardo, sono quindi nel titolo forse più per rappresentare indolenti lucertoloni che si crogiolano tutto il giorno al sole.

 

 

Antonio Petruzzi

I basilischi (1963): Antonio Petruzzi

 

 

Lo sguardo della Wertmüller si concentra su tre ragazzi: Antonio (Antonio Petruzzi), figlio del notaio e studente poco appassionato di giurisprudenza, Francesco (Stefano Satta Flores), ragioniere figlio di piccoli proprietari terrieri, Sergio, insegnante che nella storia ha un ruolo più defilato. La loro vita è essenzialmente imperniata sull'ozio, sul gironzolare tra le stradine, le partite di carte al circolo e le chiacchiere dal barbiere, la corte sempre alle medesime ragazze che rispondono “tra tre giorni”, le spiate alla procace “coscialunga monferrina”, ex ballerina romana capitata chissà come a sposare un paesano.

 

Questi giovani hanno anche dei sogni di evasione da una società immutabile e soffocante, pare scorgersi in loro una voglia di fuga ed emigrazione verso le favoleggiate grandi città, lasciandosi alle spalle il tedio asfissiante e l'assenza di prospettive che vadano oltre alle aspettative della famiglia, che li spinge a prendersi una laurea che però non servirà a nulla oppure a sistemarsi opportunisticamente con la sgradevole figlia del farmacista.

 

Tuttavia l'ignavia che domina quella cultura ha permeato anche i ragazzi, che rimangono invischiati nelle dicerie ripetitive e nell'immobilismo del paese, e si riducono a fare i fanfaroni incapaci di concludere alcunché di concreto. I sogni (trasferirsi a Roma, restare ma avviare una cooperativa agricola) rimangono nel cassetto e non si ha il coraggio di perseguirli fino in fondo nemmeno quando si presenta un'occasione, si resta fermi alle sempiterne “chiacchiere” e alle spacconate da raccontare agli amici passeggiando eternamente su e giù per lo stradone principale del paesone. E così alle reprimende del padre (spassose davvero, ben scritte nonché interpretate da Luigi Barbieri) che lo accusa di essere uno sfaccendato che gli chiede ancora soldi per gli svaghi perché a venticinque anni “non sei stato capace di laurearti né di prenderti moglie”, Antonio non riesce ad opporre una sua ribellione né un suo progetto per dimostrare di saper andare oltre al ristretto orizzonte dei vecchi. Solo può ribattere al genitore che anche lui è fatto allo stesso modo (“e perché tu che fai?”), che sono tutti prodotto di una medesima realtà che spegne e soffoca gli aneliti di tutte le generazioni.

 

 

Flora Carabella

I basilischi (1963): Flora Carabella

 

 

L'esordiente Wertmüller dipinge con mano sicura e leggera un ritratto impietoso di questo asfittico microcosmo, un'indagine sociale capace di introspezione psicologica e condita da una pungente dose di ironia e da un pizzico di quel grottesco che diventerà sempre più tratto caratteristico dello stile dell'autrice nel prosieguo della sua carriera.

 

La colonna sonora è di Ennio Morricone e nella sequenza iniziale della siesta ci trasporta quasi al confine con il Messico: se apparisse Clint a rompere la quiete non ci stupiremmo più di tanto. Poi proseguendo la visione capiamo che perfino lui avrebbe rischiato di rimanere invischiato in quelle sabbie mobili.

La bellissima edizione restaurata in 4k da Istituto Luce Cinecittà esalta il magnifico bianco e nero della fotografia di Gianni Di Venanzo.

 

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