Regia di Anurag Kashyap vedi scheda film
Violento thriller metropolitano "made in India" dalle malcelate ambizioni ma dal risultato modesto. In bilico tra il desiderio di fare un action travolgente e il tentativo di dare profondità psicologica ai personaggi, il regista finisce per fare il Tarantino in versione indiana
Nella Mumbai dei giorni nostri si aggira uno psicopatico che impreca piagnucolando contro la propria cattiva sorte e non esita a sfasciare la testa alla gente a colpi di crick. Il compito di dargli caccia tocca a un poliziotto strafatto, che pare più interessato a rimorchiare disinibite fanciulle in discoteca e a recuperare droghe varie che non ad adempiere al suo dovere di tutore della legge.
Detta così sembrerebbe l'inizio di un thriller metropolitano a tinte violente, un noir mutuato dalla tradizione americana e portato tra le affollate strade della megalopoli indiana.
E invece no: siamo, è vero, nell'ambito del poliziesco ma di un poliziesco grottesco, talmente carico di eccessi da annegare negli stessi e perdere l'orientamento.
Anurag Kashyap fin dalle prime battute sembra voler definire in maniera chiara i binari su cui procedere: titoli di testa roboanti, con le facce dei due protagonisti che si sovrappongono in un gioco psichedelico sottolineato dai colori sgargianti che stendono gli occhi dello spettatore, e poi la presentazione dei protagonisti, entrambi ritratti subito in quelle che sono le loro deliranti personalità.
Ramanna (il villain) è un malato di mente con tendenza all'autocommiserazione e a comportamenti pericolosamente violenti, come testimonia la scia di sangue che si lascia dietro. Raghavan, il poliziotto, non è certo da meno come del resto si è detto in premessa, un edonista dedito al piacere personale e incapace di amare, tutore di una legge che trasgredisce in ogni maniera non esitando a ricorrere all'omicidio quando questo è funzionale al suo tornaconto personale.
Facce speculari della stessa medaglia, si incrociano e si inseguono nelle vie di una città che pare totalmente indifferente alle loro follie.
Kashyap sembra insomma avere una buona idea di partenza per proporre al pubblico una storia di delirio metropolitano. Peccato che alle buone idee non sia seguita uno sviluppo delle stesse all'altezza delle aspettative.
Al regista indiano scappa sovente la mano nell'uso dei toni grotteschi, in particolare il serial killer sembra veramente improponibile nella sua lampante stupidità e di contro il poliziotto sembra solamente interessato a seguire una strada di eccessi senza limite che non possono che portarlo a una perdizione totale.
Il primo paragone che viene in mente seguendo le vicende di questa pellicola è, e verrebbe voglia di dire “inevitabilmente”, Quentin Tarantino. Nel bene e nel male.
Kashyap alterna le scene d'azione (neanche eccezionali) a esternazioni deliranti dello psicopatico Ramanna in cui sembra voler ricalcare il modello di certi monologhi travolgenti che si trovano nei lavori di Tarantino (da Pulp Fiction fino all'ultimo The Hateful Eight).
Ora non c'è nulla di male in questo, il regista di Knoxville può legittimamente rappresentare un modello per un certo modo di fare cinema, tuttavia qui più che all'omaggio o all'ispirazione pare di essere di fronte alla più semplice (e inutile) imitazione.
Il poliziotto sfatto di droga e abusi sembra il cugino asiatico di Vincent Vega e Jules Winnfield, le scene di violenza insensata (comunque mai mostrata in tutta la sua efferatezza) si susseguono alternate alle maldestre e scombinate indagini di uno degli investigatori più improbabili mai apparsi su uno schermo.
Non mancano alcuni buoni spunti, intendiamoci: certe suggestive inquadrature nel crepuscolo incombente sulla metropoli lasciano intravedere un uso della fotografia non banale, soprattutto il rapporto tormentato tra Raghavan e la sua bellissima fidanzata Simmy, innamorata di lui ma a sua volta incapace di sottrarsi a un destino di “donna in vendita” al ricco di turno, poteva essere la base di partenza per una storia decisamente più interessante.
Ma gli spunti rimangono tali, Kashyap sembra, almeno a giudizio di chi scrive, più impegnato a fare il Tarantino al curry che non a fornire una propria idea di cinema.
E i richiami al “già visto” non si limitano alla sola cinematografia tarantiniana, non mancano infatti i richiami ad altri classici del genere, in primis quel Fight Club da cui sembra essere stata presa l'idea del “doppio”, che qui comunque viene sviluppata in maniera totalmente differente (e su cui non diciamo altro per non rovinare un finale che in realtà è già ampiamente intuibile ben prima delle battute conclusive).
Diciamo solo (ma lo si legge nelle battute iniziali del film, nessuna clamorosa anticipazione) che il Raman Raghav del titolo è un serial killer che imperversava negli anni '60 e la cui vicenda ha in qualche maniera ispirato il film.
In conclusione un film mal riuscito, di cui salviamo qualche buon pezzo della interessante colonna sonora, le buone intepretazioni dei due protagonisti (Nawaduzzin Siddiqui e Vicky Kaushal) e soprattutto la bellissima Sobhita Dhulipala, la cui presenza da sola vale mezza stella in più.
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